TRIBUNALE DI CATANIA 
                        Prima Sezione Civile 
 
    Il Tribunale, riunito in  Camera  di  consiglio  e  composto  dai
magistrati: 
        dott. Massimo Escher, Presidente; 
        dott.ssa Maria Acagnino, giudice; 
        dott.ssa Viviana A. Di Gesu, giudice relatore, 
    ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n.
9361-1/2020 R.G., promossa da P S D A , (C.F.: PGLSVT72C03C351B) nato
a ..., rappresentato e difeso, come da  procura  in  atti,  dall'avv.
Eugenio Marano e dall'avv. Claudio Milazzo; 
    contro Ministero dell'interno - Prefettura di Catania  -  Ufficio
Territoriale  del  governo,  in  persona  del  Ministro  pro-tempore,
rappresentati e difesi ope legis dall'Avvocatura  distrettuale  dello
Stato, sede di Catania e  con  l'intervento  del  pubblico  ministero
presso il Tribunale di  Catania,  in  persona  della  dott.ssa  Agata
Santonocito; 
 
                               Osserva 
 
    Con decreto del 24 luglio 2020 il  Prefetto  della  Provincia  di
Catania - esaminata la sentenza n 3362/2020 con la quale il Tribunale
di Palermo, ai sensi degli articoli 2, 62-bis, 81 e 314, C. P.  ,  ha
condannato tra gli altri S D A P alla pena di anni quattro e mesi tre
di reclusione, e, accertata in base agli articoli  10  e  11  decreto
legislativo 31 dicembre 2012 n. 235 la  sussistenza  della  causa  di
sospensione di diritto dalla carica di sindaco del Comune  di  ...  -
adottava il provvedimento di sospensione per la  durata  di  diciotto
mesi, nei confronti del dott. S D A P. 
    L'interessato ha proposto ricorso ex art. 22 decreto  legislativo
1° settembre  2011  n.  150  avverso  il  suddetto  provvedimento  e,
successivamente, con ricorso cautelare depositato telematicamente  in
data  26  agosto  2020,  ha  chiesto  disporsi  la  sospensione   del
provvedimento impugnato e la sua reintegra nella  carica  di  sindaco
del comune di ..., nonche' la sospensione del giudizio con rimessione
alla   Corte   costituzionale   delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale prospettate nel ricorso introduttivo. 
    A  sostegno  della  domanda  cautelare,   il   dott.   P   deduce
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  11  del  citato  decreto
legislativo n. 235/2012, in applicazione del quale era stata disposta
la sospensione dalla carica di sindaco, per i seguenti motivi: 
        A.1) illegittimita' costituzionale dell'art. 11  del  decreto
legislativo n. 235/2012 per violazione dell'art. 27, comma  2,  della
Costituzione e dell'art. 6, comma 2, dalla  Convenzione  europea  dei
diritto dell'uomo, per la violazione del principio di presunzione  di
non colpevolezza fino alla condanna definitiva in quanto la  condanna
non definitiva non autorizzerebbe, in virtu'  dell'art.  27,  secondo
comma, Cost. a presumere accertata l'esistenza di «una situazione  di
indegnita' morale»; 
        A.2) illegittimita' costituzionale dell'art. 11  del  decreto
legislativo n. 235/2012 per violazione dell'art. 3, 48,  51,  76,  77
della Costituzione, per la irragionevole  disparita'  di  trattamento
determinata dagli  articoli  10  e  11  del  decreto  legislativo  n.
235/2012 rispetto ai parametri costituzionali di cui agli articoli 3,
51, 76 e  77  della  Costituzione.  Sostiene,  al  riguardo,  che  la
disparita' di trattamento e la violazione dei principi costituzionali
sarebbe ancor piu' evidente ove si consideri che  la  sospensione  in
caso di condanna non definitiva e'  prevista  esclusivamente  per  le
cariche regionale e locali, mentre la legge Severino non  prevede  la
sospensione per i componenti della Camera dei  deputati,  del  Senato
della Repubblica, del Parlamento europeo e per chi ricopre  incarichi
di Governo; 
        A.3)  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  11   decreto
legislativo n. 235/2012 per violazione  degli  articoli  3,  51,  54,
comma 2, e 97, comma 2, della Costituzione  per  l'«evidente  impatto
negativo  che  una   misura   come   la   sospensione   di   diritto,
appositamente. prevista per tutelare il buon andamento della pubblica
amministrazione, puo' determinare  in  danno  al  medesimo  principio
costituzionale»; 
        A.4) illegittimita' costituzionale del decreto legislativo n.
235/2012 (art. 11, comma 4) per violazione degli articoli 3, 48, 51 e
97 della Costituzione e dell'art. 6 della Convenzione europea per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.  Il
comma 4  dell'art.  11  del  decreto  legislativo  n.  235  del  2012
stabilisce una durata fissa della sospensione di diritto dalla carica
nell'ipotesi di condanna non definitiva per uno dei delitti  indicati
all'art. 10,  comma  1,  lettera  a),  b)  e  c)  statuendo  che  «La
sospensione cessa di diritto di  produrre  effetti  decorsi  diciotto
mesi». Evidenzia al riguardo il ricorrente che la durata fissa  della
sospensione di cui all'art. 11 della  legge  Severino  prescinde  del
tutto dalla valutazione della gravita' dei fatti e/o  comunque  dalla
gravita' della condotta e/o dal tempo in cui e' stata commessa  e  da
una puntuale  verifica  delle  circostanze,  quali,  ad  esempio,  il
momento in cui interviene la sospensione, che potrebbe essere a  fine
o inizio mandato, o comunque dalla diversita' della carica  ricoperta
anche in relazione alla programmazione dell'ente di appartenenza; 
        A.5) illegittimita' costituzionale degli  articoli  10  e  11
decreto legislativo n. 235/2012 per violazione  dell'art.  117  della
Costituzione e dello Statuto della  Regione  siciliana.  Sostiene  il
ricorrente che la normativa di cui al decreto legislativo n. 235/2012
dovrebbe  essere  applicabile  solo  limitatamente  a  quei   profili
generali che si dimostrano, in concreto, coerenti con la ratio  legis
ispiratrice  e,  soprattutto,   costituzionalmente   armonici   tanto
rispetto al riparto delle competenze legislative tra Stato e  Regione
siciliana, quanto alla tutela del diritto di elettorato passivo; 
        A.6) illegittimita' costituzionale del decreto legislativo n.
235/2012 per violazione degli articoli  2,  4,  25,  51  e  97  della
Costituzione, dell'art. 11 delle disposizioni preliminari  al  codice
civile e degli articoli 6  e  7  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  in
quanto l'applicazione retroattiva del disposto di cui  alla  suddetto
decreto legislativo si porrebbe in contrasto con gli articoli  2,  4,
secondo comma, 25, comma 2, 51, primo comma e 97, secondo comma della
Costituzione; 
        B.) il  ricorrente  inoltre  eccepisce  l'illegittimita'  del
decreto prefettizio di sospensione  dalla  carica  per  incompetenza,
eccesso di potere, difetto di  istruttoria  e  motivazione  e  omessa
comunicazione dell'avvio del procedimento. 
    Si e' costituita per la Prefettura di ..., la  locale  Avvocatura
distrettuale dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. 
    Evidenzia  l'Avvocatura  che   il   profilo   di   illegittimita'
costituzionale sollevato dal  ricorrente  in  relazione  all'art.  27
comma 2 della Costituzione si innesta nell'ambito di  un  esame  gia'
ampiamente effettuato dalla  Corte  costituzionale,  addirittura  con
riferimento alla  fattispecie  prevista  dalla  previgente  normativa
(art. 15 legge n. 55/1990). 
    Osserva poi che appaiono  infondate  le  ulteriori  eccezioni  di
incostituzionalita' sollevate dal  ricorrente  con  riferimento  agli
articoli 3, 48, 51, 76 e 77 della Costituzione, trattandosi, anche in
tal caso, di censure gia' esaminate dalla  Corte  costituzionale,  in
relazione alle quali ha  avuto  occasione  di  ribadire,  in  termini
inequivocabili,  la  legittimita'  costituzionale   delle   succitate
disposizioni di legge. Rappresenta che alle medesime  conclusioni  di
manifesta   infondatezza   era   giunta   la   Corte   costituzionale
nell'esaminare le questioni  di  incostituzionalita'  concernenti  il
vizio di eccesso di delega - in attuazione della  delega  legislativa
contenuta nei commi 63 e 64 dell'art. 1,  legge  n.  190/2012  -  per
violazione degli articoli 76 e 77 della  Costituzione  (ex  plurimis,
sentenze n. 134 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010, n. 98 del
2008, n. 163 del  2000;  sentenza  210/2015;  v.  anche  le  sentenze
98/2015, 229 e 50 del 2014, 119/2013, 341/2007, 425/2000). 
    L'Avvocatura, inoltre, sostiene l'infondatezza della questione di
incostituzionalita' prospettata dal ricorrente con  riferimento  agli
articoli 3, 48, 51 e 97 della Costituzione, laddove l'istituto  della
sospensione «di diritto» viene dal ricorrente stigmatizzato  come  il
risultato di un irragionevole e arbitrario bilanciamento compiuto dal
legislatore    fra    il    buon    andamento    e    l'imparzialita'
dell'amministrazione, da un lato, e il diritto di elettorato passivo,
dall'altro, avendo, con  riguardo  a  tale  bilanciamento,  la  Corte
costituzionale costantemente escluso profili di irragionevolezza  e/o
arbitrio. 
    Quanto all'eccezione di incostituzionalita'  per  violazione  del
principio di irretroattivita' della legge penale ex art. 25,  secondo
comma, della Costituzione nonche' per contrasto con l'art.  11  delle
Preleggi (Disposizioni  preliminari  al  codice  civile)  e  con  gli
articoli 6 e 7 della Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'   fondamentali,   l'Avvocatura
richiama il costante  orientamento  della  Corte  costituzionale,  la
quale, rimarcando la natura sostanzialmente  non  afflittivo-punitiva
della misura cautelare sospensiva nel  diritto  interno,  anche  alla
luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo giunge  alla  seguente  conclusione:  «...  dal
quadro delle garanzie apprestate dalla CEDU come  interpretate  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo non e' ricavabile un  vincolo  ad
assoggettare  una   misura   amministrativa   cautelare,   quale   la
sospensione dalle cariche elettive in  conseguenza  di  una  condanna
penale non definitiva, al  divieto  convenzionale  di  retroattivita'
della  legge  penale.  Mentre  e'  compatibile  con  quel  quadro  la
soluzione adottata dal  legislatore  italiano  con  la  finalita'  di
evitare ""che la permanenza in carica di  chi  sia  stato  condannato
anche in via non definitiva per determinati reati  che  offendono  la
pubblica amministrazione [possa] comunque  incidere  sugli  interessi
costituzionali protetti  dall'art.  97,  secondo  comma,  Cost.,  che
affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici  in
modo  che  siano  garantiti  il  buon  andamento  e   l'imparzialita'
dell'amministrazione, e  dall'art.  54,  secondo  comma,  Cost.,  che
impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche  "il  dovere
di  adempierle  con  disciplina  ed  onore""»  (sentenze  236/2015  e
276/2016). 
    Infine l'Avvocatura  contesta  le  doglianze  del  ricorrente  in
ordine all'asserita illegittimita' del provvedimento di  sospensione,
sotto il triplice profilo dell'incompetenza, dell'eccesso di potere e
del difetto di motivazione e/o istruttoria. Sul  punto  sostiene  che
«Tale ricostruzione e' facilmente confutabile  in  forza  del  tenore
letterale dell'art. 11, comma 5, decreto legislativo n. 235/2012, che
espressamente attribuisce  all'autorita'  prefettizia  il  potere  di
accertamento circa la sussistenza della causa  di  sospensione  e  il
compito di  successiva  notifica  del  relativo  provvedimento,  gia'
adottato, agli  organi  succitati.  Ugualmente  priva  di  fondamento
risulta la doglianza circa, l'omessa istruttoria che  inficerebbe  il
provvedimento in parola. E' invero evidente che il provvedimento  con
cui il prefetto accerta l'esistenza di una causa di  sospensione  "di
diritto" dalla carica elettiva costituisce un atto dovuto e vincolato
... con conseguente attivazione del principio di salvaguardia di  cui
all'art.  21-octies,  comma  2,  legge  n.  241/90  (cfr.   Tribunale
amministrativo  regionale  Lazio  -   Roma,   sentenza   5047/2015).»
Evidenzia dunque che trattandosi di provvedimento vincolato,  non  e'
necessario  nella  fattispecie,  come  chiarito,  l'espletamento   di
ulteriore istruttoria, ne' la comunicazione di avvio del procedimento
ex legge n. 241/1990. 
    La Procura della Repubblica,  intervenuta  nel  procedimento,  ha
analogamente chiesto il  rigetto  del  ricorso,  ed  ha  puntualmente
contestato tutti i profili di illegittimita' costituzionale sollevati
dal   ricorrente,   richiamando   la   giurisprudenza   della   Corte
costituzionale che si e' pronunciata sulle suddette questioni. 
    In particolare, il pubblico ministero  evidenzia  che  «la  Corte
costituzionale  ha  valutato  positivamente  la  legittimita'   delle
disposizioni del decreto legislativo n. 235/12 nelle sentenze n.  236
del 2015, n. 276 del 2016, n. 214 del 2017, n. 36 del 2019  e  n.  46
del 2020; e la legittimita' delle omologhe disposizione dell'art.  15
legge n. 55/1990 nelle sentenze n.  407/1992  n.  288  del  1993,  n.
184/1994 n. 295/1994 n.  141  del  1996  (con  tale  norma  e'  stata
ritenuta la illegittimita' dell'art.  15  nella  sola  parte  in  cui
corredava la ineleggibilita' al mero rinvio a giudizio), n.  364  del
1996, n. 132/2001 e n. 25 del 2002. 
    Il fulcro delle argomentazioni,  coerentemente  articolate  dalla
Consulta negli ultimi diciotto anni, si individua nella natura  della
sospensione della cui legittimita' si dubita e  nella  finalita'  che
essa e' destinata a soddisfare. 
    La  natura  cautelare  e  non  sanzionatoria  della   sospensione
prevista dall'art. 11  decreto  legislativo  n.  235/2012,  e'  stata
affermata nelle predette sentenze e argomentata adeguatamente,  anche
mediante la valutazione dei cd. Criteri Engel enucleati  dalla  Corte
europea  dei  diritti  dell'uomo  (la  qualificazione   dell'illecito
operata nel diritto nazionale; la natura della  sanzione,  alla  luce
della sua funzione punitiva-deterrente; la sua  severita'  ovvero  la
gravita' del sacrificio imposto). 
    La Corte costituzionale in modo  particolare  nella  sentenza  n.
276/2016, ha compiutamente  argomentato  circa  la  insussistenza  di
indici del carattere sanzionatorio della norma in  parola  alla  luce
dei predetti criteri evidenziando, in estrema sintesi, che: 
        la sospensione prevista dall'art. 11, decreto legislativo  n.
235/12 non riveste natura di  sanzione  penale  nel  diritto  interno
italiano; talune  restrizioni  del  diritto  di  elettorato  passivo,
assimilabili  a  quella  oggetto   del   presente   giudizio,   nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo  sono  state
collocate al di fuori della sfera penale per  quanto  collegate  alla
commissione  di  un  illecito,  in  ragione  della   loro   finalita'
principale di proteggere l'integrita' di una pubblica amministrazione
e cio' a prescindere dall'eventuale coincidenza del  contenuto  delle
predette restrizioni con  una  sanzione  accessoria  a  una  sanzione
penale. La stessa automaticita' dell'applicazione della  sospensione,
resa  evidente  nella  mancanza  di  discrezionalita'  dell'autorita'
amministrativa  chiamata  ad   accertare   l'intervenuta   causa   di
sospensione,  depone  per  il  fatto  che   l'incapacita'   giuridica
temporanea  di  cui  si  discute  non  consegua  a  un  giudizio   di
riprovazione personale,  ma  e'  semplicemente  diretta  a  garantire
l'oggettiva onorabilita' di chi riveste la funzione di cui si tratta. 
    Con riferimento alle conseguenze sfavorevoli  per  colui  che  e'
colpito dalla misura, considerato che  deve  farsi  riferimento  alla
durata massima,  e'  stato  evidenziato  il  difetto  della  speciale
gravita' del sacrificio imposto sia in termini  oggettivi  di  durata
sia in termini soggettivi di detrimento della reputazione.  Quanto  a
quest'ultimo   aspetto,   deve   aggiungersi   che   la   sospensione
dall'incarico, proprio per il suo carattere automatico, non e' idonea
a incidere negativamente sulla  reputazione  di  chi  e'  colpito  in
misura maggiore e diversa di quanto gia' non abbia fatto la  sentenza
di condanna che costituisce presupposto del provvedimento. 
    Quanto alla finalita' della sospensione  prevista  dall'art.  11,
decreto legislativo n. 235/12 deve osservarsi, come si e' piu'  volte
evidenziato nella giurisprudenza della Corte costituzionale  relativa
sia all'art. 15 della legge n. 55/1990 che al decreto legislativo  n.
235/2012, che originariamente la finalita' della norma era quella  di
costituire "una sorta  di  difesa  avanzata  dello  Stato  contro  il
crescente aggravarsi del fenomeno della  criminalita'  organizzata  e
dell'infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali" (cfr.  Corte
costituzionale n.  407/1992,  riportata  in  parte  qua  anche  nella
sentenza n. 276  del  2016)  avendo  la  finalita'  di  salvaguardare
l'ordine  e  la  sicurezza   pubblica,   la   tutela   della   libera
determinazione  degli  organi  elettivi,  il  buon  andamento  e   la
trasparenza  delle  amministrazioni  pubbliche;  successivamente   il
carattere  di  diffusa  illegalita'  nella  pubblica  amministrazione
indusse  ad  allargare  l'ambito  soggettivo   ed   oggettivo   della
disciplina a tutela degli  interessi  costituzionali  protetti  dagli
articoli 54, secondo comma e  97  secondo  comma  Cost.  (cfr.  Corte
costituzionale n. 276 del 2016). 
    In altri termini lo scopo della norma e' quello  di  tutelare  la
pubblica amministrazione: (..) Di fronte ad una grave  situazione  di
illegalita'  nella  pubblica   amministrazione,   infatti,   non   e'
irragionevole  ritenere  che  una  condanna  (non   definitiva)   per
determinati delitti (per quanto  qui  interessa  contro  la  pubblica
amministrazione)   susciti   l'esigenza   cautelare   di   sospendere
temporaneamente  il  condannato   dalla   carica   per   evitare   un
"inquinamento" dell'amministrazione e per garantire ""la credibilita'
dell'amministrazione presso il pubblico, cioe' il rapporto di fiducia
dei cittadini verso  l'istituzione,  che  puo'  rischiare  di  essere
incrinato dall'"ombra" gravante su di essa a causa dell'accusa cui e'
colpita una persona attraverso la quale l'istituzione stessa  opera""
(cfr. sentenze della Corte costituzionale 236/15, 206/1999). 
    Orbene,  essendo  notoriamente  ancora  sussistente   una   grave
situazione di  illegalita'  nella  pubblica  amministrazione  permane
l'esigenza, valorizzata dalla Corte costituzionale di preservare  gli
apparati pubblici dal pericolo di  inquinamento  e  di  tutelarne  la
credibilita' presso i  cittadini.  Tale  esigenza  rende  ancora  non
irragionevole, attualmente, la temporanea compressione del diritto di
elettorato passivo in dipendenza dell'emissione di  una  sentenza  di
condanna». 
    Cosi'  delineato  il  quadro  delle  deduzioni  del   ricorrente,
dell'Avvocatura dello Stato e del pubblico  ministero,  va  osservato
quanto segue. 
1. In merito alla ammissibilita' del ricorso, alla sussistenza  della
giurisdizione ordinaria ed alla corretta impostazione in rito. 
    Preliminarmente occorre ribadire  la  giurisdizione  del  giudice
ordinario e la correttezza del rito prescelto, profili che  -  seppur
non siano stati oggetto di contestazione ne' da parte dell'Avvocatura
dello Stato  ne'  da  parte  del  pubblico  ministero  -  si  ritiene
opportuno puntualizzare. 
    Al riguardo le  Sezioni  Unite  della  Corte  di  cassazione  (n.
11131/15) hanno avuto modo di chiarire che «In tema  di  impugnazione
del provvedimento che abbia disposto la sospensione di diritto  dalla
carica di amministratore locale per condanna penale non definitiva ai
sensi dell'art. 11, comma 1, lettera  a)  della  legge  Severino  (n.
235/2012),  la  giurisdizione  deve  essere  attribuita  al   giudice
ordinario posto che il provvedimento  impugnato,  pur  avendo  natura
amministrativa, afferisce all'esercizio  del  diritto  di  elettorato
passivo in termini di esecuzione del mandato». 
    La Corte di cassazione ha,  dunque,  individuato  chiaramente  la
questione dell'opposizione ai detti provvedimenti sospensivi come «di
diritto soggettivo», con conseguente giurisdizione del G.O.,  e  l'ha
ricondotta  tra  le  controversie  previste  dall'art.  22,   decreto
legislativo n. 22/2011, controversie regolate dal  rito  sommario  di
cognizione e decise dal Tribunale in composizione collegiale  con  la
partecipazione del pubblico ministero. 
    La Suprema Corte ha altresi' riconosciuto l'ammissibilita'  della
tutela cautelare invocata, che concerne diritti  fondamentali  aventi
rilievo costituzionale. 
    Al riguardo, ha evidenziato in Sez. Un.,  18  novembre  2015,  n.
23542  che  «proprio  in  ragione  dell'effettivita'   della   tutela
d'urgenza, la giurisprudenza costituzionale ha ammesso che il giudice
rimettente, sia speciale (ord. n. 3 e n. 58 del 2014; sentenza n.  83
del 2013; sentenza n. 172 del 2012; ordinanza n. 211  e  n.  307  del
2011) che - secondo un piu' recente arresto (sent. n. 274 del 2014) -
anche ordinario, possa, senza esaurire il suo potere  giurisdizionale
d'urgenza, adottare  misure  provvisorie  per  accordare  una  tutela
interinale nel tempo  occorrente  per  la  definizione  del  giudizio
incidentale di costituzionalita' e  con  un  contenuto  che  intanto,
limitatamente a questo lasso di tempo, schermi  la  norma  indubbiata
nella parte e nella misura in cui il  giudice  adito  abbia  espresso
dubbi di non manifesta infondatezza della questione sollevata. 
    Ricorrente nella giurisprudenza  della  Corte  e'  l'affermazione
secondo cui il giudice ben puo' sollevare questione  di  legittimita'
costituzionale   in   sede    cautelare    anche    quando    conceda
provvisoriamente la relativa  misura  su  riserva  di  riesame  della
stessa nello stesso tempo sospenda il  giudizio  con  l'ordinanza  di
rimessione, purche' tale concessione non si risolva, per  le  ragioni
addotte a suo  fondamento,  nel  definitivo  esaurimento  del  potere
cautelare del quale in  quella  sede  il  giudice  amministrativo  e'
dotato. Infatti la potestas iudicandi  non  puo'  ritenersi  esaurita
quando la concessione della misura cautelare e'  fondata,  quanto  al
fumus boni iuris, sulla non manifesta infondatezza della questione di
legittimita' costituzionale, dovendosi in tal caso  ritenere  che  la
sospensione  dell'efficacia   del   provvedimento   impugnato   abbia
carattere provvisorio e temporaneo fino  alla  ripresa  del  giudizio
cautelare dopo l'incidente di legittimita' costituzionale». 
2. Sul fumus boni iuris. 
    Come sopra illustrato, il ricorrente ha formulato sette ordini di
motivi, da A.1 ad A.6 e B). Nei  primi  sei  motivi  sub  A,  formula
censure di illegittimita' costituzionale  dell'art.  11  del  decreto
legislativo  n.  235/2012;  la  censura  sub   B   ha   per   oggetto
l'illegittimita' del  provvedimento  prefettizio,  per  incompetenza,
eccesso di potere, difetto di  istruttoria  e  motivazione  e  omessa
comunicazione dell'avvio del procedimento. 
    2.a.) Per ordine logico, occorre prendere in esame queste  ultime
censure. 
    2.a.1.) Assume il ricorrente che la  competenza  ad  emettere  il
provvedimento  di  sospensione  della  carica  spetti  al   Consiglio
comunale, organo di convalida dell'elezione del sindaco. 
    Il motivo e' palesemente infondato. 
    La disposizione  in  questione  e'  contenuta  nell'art.  11  del
decreto legislativo n. 235/2012, il  quale,  al  comma  quinto,  cosi
dispone: «A cura della cancelleria del tribunale o  della  segreteria
del pubblico ministero i provvedimenti giudiziari che  comportano  la
sospensione sono comunicati  al  prefetto,  il  quale,  accertata  la
sussistenza di una causa di sospensione,  provvede  a  notificare  il
relativo provvedimento agli organi che hanno convalidato l'elezione o
deliberato la nomina.». 
    Da tale norma, che pur non  brilla  per  chiarezza,  non  possono
sorgere dubbi sulla competenza prefettizia, e cio' per diversi ordini
di profili: a) l'espressione resterebbe  monca  poiche'  non  dispone
testualmente che la sospensione e' adottata dall'Organo  destinatario
della  notificazione  prefettizia;  b)  oggetto  della  notificazione
sarebbero stati - a seguire l'interpretazione della  norma  da  parte
ricorrente - non «il relativo provvedimento»,  che,  appunto,  appare
chiaramente  riferirsi  al  termine  «sospensione»  che  lo  precede,
bensi', piu' precisamente, due atti: la sentenza del tribunale  e  le
conclusioni circa la  sussistenza  dei  presupposti  per  l'adottanda
sospensione cui era pervenuto il prefetto; e) in  Sicilia  l'elezione
del sindaco si conclude con la proclamazione dell'eletto (articoli 8,
10 della legge reg. 26 agosto 1992 n.  7)  da  parte  del  Presidente
dell'Ufficio  centrale  elettorale  (o  del  Presidente  della  prima
sezione), il cui provvedimento e' definitivo, impugnabile con i  noti
ricorsi (art. 11). Il sindaco cosi' nominato  giura  poi  davanti  al
Consiglio comunale e  comunica  allo  stesso  la  composizione  della
giunta. 
    Non esiste, quindi, in Sicilia,  un  Organo  di  convalida  della
elezione del sindaco e, a voler fare  coincidere  l'espressione  «gli
organi che hanno deliberato  la  nomina»,  con  l'organo  che  emesso
l'atto di proclamazione dell'eletto, va  osservato  che  l'organo  in
questione (Presidente dell'ufficio elettorato o della prima  sezione)
cessa dalle sue funzioni con la conclusione delle elezioni,  trattasi
cioe' di un organo straordinario e non  strutturato  in  un  contesto
amministrativo o assembleare, con la conseguenza  che  sarebbe  stato
abbastanza  singolare  che  il  provvedimento  di  sospensione  fosse
demandato ad un Organo straordinario, non piu' esistente  al  momento
del venire in essere del fatto che  da'  luogo  al  provvedimento  di
sospensione. 
    In  realta'  la  notifica  ha  soltanto  un  valore   di   legale
informazione all'eventuale organo (assembleare) che abbia convalidato
l'elezione oppure all'organo assembleare che abbia deliberato  a  suo
tempo la nomina. In buona sostanza la previsione normativa prende, al
riguardo,  in  considerazione  il  caso  in  cui  ci  sia  un  organo
assembleare  strutturato,  cui  per  legge   o   regolamento   spetti
l'adozione  di  un  atto  di  convalida  o  di  nomina  del  soggetto
destinatario del provvedimento di sospensione emesso dal prefetto. 
    Va dunque affermata la competenza del prefetto  all'adozione  del
provvedimento di sospensione del sindaco dalla sua carica,  ai  sensi
dell'art. 11 della legge n. 235 del 2012, a prescindere dal fatto che
in un sistema elettorale (tra i diversi vigenti) sia prevista  o  non
una convalida della elezione oppure la nomina  del  soggetto  cui  si
riferisce la sospensione. 
    D'altra parte va sottolineato che analogamente  anche  l'art.  1,
comma 4-ter della legge n. 55 del 1999, introdotto dall'art. 1, comma
1 della legge n.  16  del  1992,  applicabile  in  Sicilia  ai  sensi
dell'art. 6 della legge reg. siciliana n. 7 del 1992, come sostituito
dall'art. 36 della legge reg.  n.  26  del  1993,  di  cui  si  dira'
diffusamente in prosieguo, prevedeva la competenza del prefetto per i
provvedimenti in questione. 
    Quindi la norma di cui al comma 5 dell'art.  11  della  legge  n.
235/2012  non  ha  fatto  altro   che   ricalcare   le   disposizioni
precedentemente  in  vigore   che   attribuivano   al   prefetto   il
provvedimento di cui trattasi. 
    2.a.2.)  Per  come  e'  stato  sottolineato  anche  dalle   parti
resistenti, va poi  evidenziato  che  il  provvedimento  con  cui  il
prefetto accerta l'esistenza di una causa di sospensione dalla carica
elettiva  costituisce  un  atto  dovuto  e   vincolato,   in   quanto
conseguenza ope legis della condanna non definitiva  per  determinate
fattispecie delittuose (v. Cassazione civile, 11131/2015: «il decreto
prefettizio che accerta la sussistenza della causa di sospensione  e'
provvedimento non discrezionale, ma vincolato»). Opera, pertanto,  il
principio di salvaguardia di cui all'art. 21-octies, legge n. 241/90,
a norma del quale: «non e' annullabile il provvedimento  adottato  in
violazione di  norme  sul  procedimento  o  sulla  forma  degli  atti
qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il
suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non e' comunque
annullabile per mancata  comunicazione  dell'avvio  del  procedimento
qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il  contenuto  del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato». E, in questo caso, il  ricorrente  non  solleva  questioni
sull'interpretazione del  contenuto  della  disposizione,  bensi'  ne
mette in discussione la sua legittimita' costituzionale. 
    2.b.) Escluso, quindi, il fumus con riguardo alla censura sub B),
sono da esaminare i  motivi  da  A.1)  ad  A.6),  con  i  quali  sono
sollevate  censure  di  illegittimita'  dell'art.  11  indicato,  per
diversi profili. 
    2.b.1.) Per ordine logico, va in primo luogo esaminato il  motivo
sub  A.5)  del  ricorso,  e  cioe'  la   violazione   dell'art.   117
Costituzione e dello Statuto  siciliano,  sotto  il  profilo  che  le
disposizioni contenute  nei  commi  4  e  5  dell'art.  11,  i  quali
disciplinano le «modalita' di accertamento» e le «sanzioni» incidenti
sui  diritti  di  elettorato  passivo  -   sarebbero   lesive   delle
prerogative regionali. 
    Sul punto va  rilevato  che  l'art.  14  della  «legge  Severino»
stabilisce   testualmente:   «Le   disposizioni   in    materia    di
incandidabilita' del presente testo unico si applicano nelle  regioni
a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e Bolzano.». 
    Ora - anche a volere ritenere l'intento del legislatore  delegato
di  escludere  dall'applicabilita'  ex  se  alle  regioni  a  statuto
speciale  ed  alle  province  autonome  di  Trento   e   Bolzano   le
disposizioni    non    concernenti    rigorosamente    la     materia
dell'incandidabilita' (e connesse sanzioni) e,  precisamente,  quelle
relative  alla  mera  sospensione  dalle  funzioni,   conseguente   a
provvedimenti giudiziari, inidonei, appunto perche' non definitivi, a
determinare la incandidabilita' del soggetto - va  tuttavia  rilevato
che  la  Regione  Sicilia  nella  subiecta  materia  non  ha  emanato
disposizioni  proprie,  preferendo  la  tecnica   del   rinvio   alla
legislazione statale. 
    E infatti con l'art. 36 della legge regionale 1°  settembre  1993
n. 26, contenente «Nuove norme per l'elezione con suffragio  popolare
del Presidente della provincia regionale, norme  per  l'elezione  dei
consigli  delle  province  regionali,  per  la  composizione  ed   il
funzionamento degli organi di amministrazione di  detti  enti.  Norme
modificative ed integrative al testo unico  approvato  con  dpreg  20
agosto 1960, n. 3, ed alla legge regionale 26 agosto 1992, n. 7»,  la
Regione siciliana, sostituendo l'art.  6  della  legge  regionale  26
agosto 1992, n. 7, ha recepito la legislazione  statale  in  materia,
stabilendo: «Nella Regione siciliana si applicano le disposizioni  di
cui alla legge 18 gennaio 1992, n. 16.». 
    La legge statale n. 16/1992,  intitolata  «Norme  in  materia  di
elezioni e nomine presso le regioni e gli  enti  locali»,  dichiarata
applicabile nella Regione siciliana con l'art. 36 sopra  indicato,  a
sua volta, con l'art. 1  aveva  sostituito  i  commi  1,  2,  3  e  4
dell'art. 15 della legge 19  marzo  1990,  n.  55,  introducendo,  in
materia di candidabilita', sanzioni e sospensione dalle  funzioni  di
pubblico amministratore per una  serie  di  reati,  tra  i  quali  il
peculato (art. 314  c.p.),  con  riguardo  anche  alle  sentenze  non
definitive,  disposizioni  addirittura  piu'   rigorose   di   quelle
contenute nell'attuale normativa adottata con il decreto  legislativo
n. 235/2012. 
    L'art. 1 della legge n. 16/1992 e' stato poi  abrogato  dall'art.
274, decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e la materia di  cui
trattasi e' stata ivi disciplinata agli articoli  58  e  59,  a  loro
volta abrogati dall'art. 17 del decreto legislativo n. 235/2012  (per
come meglio si dira' in prosieguo). 
    L'istituto della sospensione  per  sentenza  non  definitiva  e',
appunto, ora disciplinato dall'art. 11 della legge Severino. 
    Dal mero rinvio fatto dal legislatore regionale  del  1993  -  in
materia di provvedimenti da adottare a seguito  di  decisioni  penali
non definitive - alla legge statale n. 16  del  1992,  nonche'  dalla
constatazione che, in prosieguo, il legislatore  regionale  siciliano
non si e' piu' occupato della materia, a seguito  della  sostituzione
delle disposizioni in detta legge contenute, con  proprie  normative,
e' da evincere che la Regione siciliana con  la  legge  regionale  26
agosto 1992, n. 7, abbia voluto fare ricorso  all'istituto  del  c.d.
rinvio dinamico, intendendo adeguare, in subiecta materia il  proprio
ordinamento a quello dettato dal legislatore statale. 
    E',   pertanto,   manifestamente   infondato   il   rilievo    di
incostituzionalita' degli articoli 10 e 11 del decreto legislativo n.
235 del 31 dicembre 2012, di cui  al  motivo  A.5)  del  ricorso  con
riferimento allo Statuto regionale siciliano. 
    2.b.2.) Con gli altri motivi (sub A.1, A.2,  A.3,  A.4,  A.6)  il
ricorrente  ha  anzitutto  (punto  A.1)   eccepito   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 11 del decreto legislativo n.  235/2012  per
violazione dell'art. 27, comma 2, della Costituzione e  dell'art.  6,
comma 2, dalla Convenzione europea dei diritto dell'uomo. 
    Al fine di esaminare tale rilievo, nonche' i  successivi,  appare
opportuno  riassumere  sinteticamente  la  sequenza  evolutiva  della
disciplina della materia. 
    Come e' noto, l'istituto  della  sospensione  c.d.  automatica  o
vincolata degli amministratori locali dalla carica ha  avuto  la  sua
prima fonte regolatrice nell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, che,
nell'iniziale sua formulazione, al primo comma,  prevedeva,  appunto,
siffatta sospensione, limitatamente agli amministratori «sottoposti a
procedimento penale per il delitto di associazione  di  tipo  mafioso
(416 - bis) od a misura di prevenzione di cui al secondo comma». 
    Questa originaria impostazione venne modificata dalla legge n. 16
del 1992, che, innovando in materia,  con  l'art.  1  (che  sostitui'
l'originario  art.  15  della  legge  n.  55/1990)  diversifico'   le
fattispecie,  in  relazione  al  titolo  di  reato,  disponendo,  con
riguardo  al  reato  qui  d'interesse  (art.  314  c.p.:   peculato),
l'incandidabilita', se  la  condanna  (anche  non  definitiva)  fosse
intervenuta prima della presentazione delle liste, e  la  sospensione
(a tempo indeterminato) a seguito di  condanna  non  definitiva,  con
cessazione, nel caso di successivo proscioglimento, oppure decadenza,
nel caso di definitiva condanna. 
    La materia e' stata rielaborata dalla successiva legge n. 475 del
1999, che ha subordinato l'ineleggibilita' ad una condanna definitiva
(per tal profilo recependo le indicazioni di Corte costituzionale  n.
141-96) e, con riguardo alla sospensione cautelare,  ne  ha  previsto
l'automatica operativita' con rinvio (non gia' generico  a  tutte  le
ipotesi sub art. 15), bensi' alle (sole) ipotesi di cui alle  lettere
a) e b) dell'art. 15,  mentre  per  quanto  riguarda  il  delitto  di
peculato (limitatamente  all'art.  314,  comma  1),  ha  previsto  la
sospensione dall'incarico per diciotto mesi a  seguito  di'  condanna
non definitiva, tempo che poteva prolungarsi di  altri  dodici  mesi,
nel caso di conferma in appello. 
    E' quindi sopravvenuto il testo unico 267-2000, che ha ripreso la
legge n. 475-99 nella  sua  testuale  formulazione,  risultando,  per
altro, in detto ultimo corpo normativa, bensi'  richiamata  anche  la
disposizione di cui all'art. 15, n. 1, lettera c), legge n. 55-90  (e
successive modificazioni) ma solo nel  quadro  delle  cause  ostative
alla candidatura in presenza di condanna  definitiva  (v.  Cassazione
civile sez. I, 11 febbraio 2003, n. 1990). 
    In seguito, a fronte del permanere di una situazione di  grave  e
diffusa illegalita' nella pubblica amministrazione, la  legge  delega
n. 190 del 2012 ha previsto una  serie  di  misure  per  prevenire  e
reprimere    tali    fenomeni,    tra    le    quali     l'estensione
dell'incandidabilita'  e  della  decadenza  ai  parlamentari  e  alle
cariche di Governo e l'ampliamento dei  reati  ostativi.  Il  decreto
legislativo n. 235 del 2012  ha  dunque  riordinato  la  materia,  in
attuazione della delega contenuta nell'art. 1, comma 63, della  legge
n. 190 del 2012. 
    La Corte costituzionale, in diverse occasioni, si e'  pronunciata
sia sulle norme di legge che  hanno  costituito  i  «precedenti»  del
decreto legislativo n. 235 del 2012 sia da ultimo su tale decreto (v.
Corte costituzionale 236/2015 e 276/2016) escludendo  che  le  misure
della incandidabilita', della decadenza e della  sospensione  abbiano
carattere sanzionatorio (si vedano anche le sentenze n. 25 del  2002,
n. 132 del 2001, n. 206 del 1999, n. 295 n. 184 e n. 118 del 1994). 
    La  Consulta  ha  chiarito  che  tali  misure  non  costituiscono
sanzioni o effetti penali della condanna, ma  conseguenze  del  venir
meno  di  un  requisito  soggettivo  per   l'accesso   alle   cariche
considerate o per il loro mantenimento: «nelle ipotesi legislative di
decadenza ed anche di sospensione obbligatoria dalla carica  elettiva
previste dalle norme denunciate non si tratta  affatto  di  "irrogare
una sanzione graduatile in relazione alla diversa gravita' dei reati,
bensi' di constatare che e' venuto meno un requisito  essenziale  per
continuare a ricoprire l'ufficio pubblico elettivo" (sentenza n.  295
del 1994), nell'ambito di quel potere di fissazione  dei  "requisiti"
di eleggibilita', che l'art.  51,  primo  comma,  della  Costituzione
riserva appunto al legislatore» (sentenza n. 25 del 2002). 
    La Consulta ha dunque chiarito che la sospensione  dalla  carica,
in  particolare,  «risponde  ad  esigenze  proprie   della   funzione
amministrativa  e  della  pubblica  amministrazione  presso  cui   il
soggetto colpito presta  servizio»  e,  trattandosi  di  sospensione,
costituisce «misura sicuramente cautelare» (sentenza n. 236 del 2015,
la quale si colloca nel solco tracciato dalle precedenti sentenze  n.
25 del 2002, n. 206 del 1999 e n. 295 del 1994). 
    Ora, la natura cautelare della misura prevista comporta  che,  ai
fini dello  scrutinio  di  legittimita'  costituzionale,  non  rileva
direttamente il parametro costituito dal principio di presunzione  di
non colpevolezza dell'imputato fino alla condanna definitiva, di  cui
all'art. 27, secondo comma, della Costituzione. 
    Le misure  cautelari,  infatti,  operano  per  definizione  prima
dell'accertamento definitivo della colpevolezza in ordine ai reati  a
cui esse pure talora (come nella specie) si collegano. 
    La questione appare pertanto manifestamente infondata. 
    2.b.3.) Il dott. P lamenta, poi, nel punto A.2), l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 11 del decreto legislativo n.  235/2012  per
violazione dell'art.  3,  48,  51,  76,  77  della  Costituzione,  in
relazione a quanto stabilito nella legge  delega  (legge  6  novembre
2012, n. 190  recante  le  «Disposizioni  per  la  prevenzione  e  la
repressione  della  corruzione  e  dell'illegalita'  nella   pubblica
amministrazione») il cui art. 1, al comma 64  ,  stabilisce  che  «Il
decreto legislativo di  cui  al  comma  63  provvede  al  riordino  e
all'armonizzazione della vigente normativa ed e' adottato  secondo  i
seguenti principi e criteri  direttivi:  (...);  m)  disciplinare  le
ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al
comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per  delitti  non
colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica». 
    In particolare,  lamenta  l'eccesso  di  delega  determinato  dal
decreto legislativo n. 235/2012, per avere previsto agli articoli 8 e
11 - in violazione  degli  articoli  76  e  77,  primo  comma,  della
Costituzione,  oltreche'  degli  articoli   3   e   51   Cost.   (per
irragionevolezza  e  disparita'  di  trattamento)  -  le  ipotesi  di
sospensione dalla carica degli amministratori regionali e  locali  in
assenza di una sentenza  definitiva  di  condanna  per  i  reati  ivi
contemplati. 
    Al  riguardo,   si   richiama   quanto   statuito   dalla   Corte
costituzionale, che gia' ha  escluso  la  sussistenza  del  vizio  di
eccesso di delega, chiarendo che:  «La  formulazione  del  comma  64,
lettera m), del resto, non e' tale da escludere un'interpretazione in
continuita' con il regime  precedente,  secondo  la  quale  la  legge
delega non, intendeva affatto  stravolgere  l'assetto  anteriore.  Il
sintagma successivo a "decadenza" ("dalle cariche di cui al comma  63
in caso di sentenza definitiva di condanna per  delitti  non  colposi
successiva alla candidatura o  all'affidamento  della  carica")  puo'
infatti essere riferito solo alla decadenza stessa e non  anche  alla
sospensione,  che  resterebbe  cosi'  affidata  alla  disciplina   di
riordino del legislatore delegato senza la precisazione espressa  dal
citato  sintagma  da  intendere  riservata  al  solo  istituto  della
decadenza. In mancanza di una  chiara  formulazione  letterale  della
norma delegante e di fronte  alla  possibilita'  di  attribuirle  due
diversi sensi il suo esatto significato va individuato con i consueti
criteri ermeneutici, che fanno riferimento al testo della  legge,  in
cui si inserisce, e alla sua ratio. In relazione  all'interpretazione
delle leggi di delega, la giurisprudenza costituzionale  e'  costante
nel ribadire fra l'altro come contenuto della delega non possa essere
individuato senza tenere conto del sistema  normativo  nel  quale  la
stessa si inserisce, poiche'  soltanto  l'identificazione  della  sua
ratio consente di verificare, in  sede  di  controllo,  se  la  norma
delegata sia con essa coerente» (ex plurimis,  sentenze  n.  134  del
2013, n. 272 del 2012). 
    Quanto  poi   all'asserita   irrazionalita'   e   disparita'   di
trattamento rispetto ai membri del Parlamento e del Governo  (art.  3
Cost.),  va  richiamato  il  consolidato  insegnamento  della   Corte
costituzionale che non ha ritenuto «configurabile, sotto  il  profilo
della disparita' di trattamento, un raffronto tra  la  posizione  dei
titolari di cariche elettive nelle regioni  e  negli  enti  locali  e
quella dei membri del Parlamento e del Governo, essendo  evidente  il
diverso   livello   istituzionale   e   funzionale    degli    organi
costituzionali ora citati», con la conseguenza  che  «certamente  non
puo' ritenersi irragionevole la scelta  operata  dal  legislatore  di
dettare le norme impugnate con esclusivo riferimento ai  titolari  di
cariche elettive non nazionali» (Corte cost. sentenza 276/2016). 
    La censura e' dunque manifestamente infondata. 
    2.b.4.)   Deduce,   poi,   il   ricorrente,   al   punto    A.3),
l'illegittimita' costituzionale del decreto legislativo  n.  235/2012
per violazione degli articoli 3, 51, 54, comma 2, e 97, comma 2 della
Costituzione per l'«evidente impatto negativo che una misura come  la
sospensione di diritto, appositamente prevista per tutelare  il  buon
andamento della pubblica amministrazione, puo' determinare  in  danno
al medesimo principio costituzionale». 
    Al  riguardo,  va  evidenziato  -  come  correttamente  sostenuto
dall'Avvocatura dello Stato e dal pubblico ministero - che  la  Corte
costituzionale ha costantemente escluso profili  di  irragionevolezza
della  disciplina  de  qua,  chiarendo  che  «Ben  puo'   quindi   il
legislatore,  nel  disciplinare  i  requisiti  per  l'accesso  e   il
mantenimento delle  cariche  che  comportano  l'esercizio  di  quelle
funzioni, ricercare un bilanciamento  tra  gli  interessi  in  gioco,
ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un  lato,  e  il  buon
andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione,  dall'altro;  tanto
piu' che il dovere, fissato a garanzia di questo  secondo  interesse,
di svolgere con onore le funzioni pubbliche incombe precisamente  sui
destinatari della protezione offerta dall'art. 51 Cost., vale a  dire
- per quanto qui rileva -  sugli  eletti.  Pronunciandosi  su  misure
dello stesso tipo di quella prevista dalla  norma  censurata,  questa
Corte  ha  ritenuto  che  il  bilanciamento  dei   valori   coinvolti
effettuato dal legislatore non  si  appalesa  irragionevole,  essendo
esso fondato essenzialmente sul sospetto di  inquinamento  o,  quanto
meno, di perdita dell'immagine  degli  apparati  pubblici,  che  puo'
derivare dalla permanenza in carica del consigliere eletto, che abbia
riportato una condanna,  anche  se  non  definitiva,  per  i  delitti
indicati e  sulla  constatazione  del  venir  meno  di  un  requisito
soggettivo  essenziale  per  la  permanenza  dell'eletto  nell'organo
elettivo» (sentenza 236/2015; si vedano anche le  sentenze  118/2013,
257/2010, 352/200, 825/2002, 206/1999, 141/1996). 
    Anche questo rilievo di legittimita' costituzionale  e'  pertanto
manifestamente infondato. 
    2.b.5.) Infine, appare priva di rilevanza la questione  sollevata
all'interno del punto A.6)  del  ricorso,  in  cui  si  sostiene  che
l'applicazione retroattiva del disposto di cui  al  suddetto  decreto
legislativo si porrebbe in contrasto con gli articoli 2,  4,  secondo
comma, 25, comma 2,  51,  primo  comma  e  97,  secondo  comma  della
Costituzione. 
    Invero, la questione sarebbe rilevante solo se avesse  avuto  per
oggetto un nuovo reato ostativo, che prima dell'entrata in vigore del
decreto  legislativo  n.  235  del  2012  non  facesse  scattare   la
sospensione dalla carica, a seguito di condanna non definitiva. 
    Nel caso di specie, al contrario, il delitto di peculato era gia'
incluso,  nella  previgente  disciplina  (v.  art.  59  del   decreto
legislativo n. 267 del  2000)  tra  i  reati,  la  cui  condanna  non
definitiva dava luogo alla sospensione. Esiste, quindi,  un  rapporto
di continuita' tra la norma previgente  allora  in  vigore  e  quella
l'attuale. 
    Tanto  basta,  in  conformita'   a   consolidata   giurisprudenza
costituzionale per ritenere la irrilevanza della questione sollevata, 
3. Sulla non manifesta infondatezza. 
    A diversa conclusione si perviene, invece,  riguardo  ai  profili
(disseminati, tra altri, all'interno dei vari motivi di  ricorso  sub
A.3  e  sub  A.4)  con  i  quali  si  prospetta  una   illegittimita'
costituzionale dei commi 1 e 4 dell'art. 11 del  decreto  legislativo
n. 235 del 31 dicembre 2012 -  in  riferimento  agli  articoli  della
Costituzione 3, comma 1, 48, commi 1 e 2, 51, comma 1, e 97, comma 1,
tenuto in  considerazione  il  principio  di  incolpevolezza  sancito
all'art. 27, comma 1 - nella parte in cui stabiliscono la sospensione
cautelare nella misura fissa di diciotto mesi, invece che  in  misura
graduale «sino a diciotto mesi». 
    Riguardo alla valutazione della non  manifesta  infondatezza,  si
condivide preliminarmente l'orientamento secondo cui il giudice a quo
non   ha   il   compito   di   sindacare   le   norme   di   sospetta
incostituzionalita' - funzione  di  stretta  competenza  del  Giudice
delle Leggi - bensi'  di  verificare  che  i  rilievi  sollevati  non
appaiano del tutto privi di fondamento. 
    3.a.) Va premesso che, come autorevolmente insegnato dal  Giudice
delle Leggi, la sospensione dalle funzioni prevista dall'art. 11  del
decreto  legislativo  n.  35/2012  non   costituisce   una   sanzione
anticipata della sentenza penale di condanna e pertanto  non  implica
un  anticipato  giudizio   di   riprovazione   (indegnita'   morale);
costituisce, invece, una  misura  cautelare  a  protezione  dell'ente
presso cui il soggetto condannato espleta la funzione  elettiva,  dal
pregiudizio all'immagine e  al  corretto  svolgimento  dell'attivita'
politico-amministrativa, conseguente  all'accertamento  dell'illecito
risultante nella sentenza penale (non definitiva). 
    Dalla ratio sottesa  alla  misura  cautelare  della  sospensione;
consegue l'esigenza di una verifica dell'entita' del pregiudizio, che
all'ente  deriva  in  concreto  da  quei  comportamenti,  e  di   una
valutazione complessiva dei contrapposti interessi, anche  questi  di
valenza costituzionale, indicati agli articoli 51, comma 1,  e  anche
48, commi 1 e 2 Costituzione. 
    La  mancata  ponderazione  e  valutazione  congiunta  di   questi
interessi in gioco, ai fini della determinazione  dell'entita'  della
sospensione entro un  limite  massimo  stabilito  dal  legislatore  -
necessariamente da effettuarsi in concreto  da  parte  dell'autorita'
deputata  a  decretare  la  sospensione  -   derivante   dall'attuale
formulazione delle disposizioni contenute ai commi 1 e 4 dell'art. 11
del decreto legislativo 31  dicembre  2012,  conduce,  ad  avviso  di
questo remittente, ad un sospetto di non manifesta infondatezza della
questione di costituzionalita', con riferimento all'art. 3, comma  1,
della Costituzione. 
    Invero, la sospensione cautelare fissa di diciotto mesi -  e  non
in misura diversificata, che tenga conto della tipologia del fatto  e
dell'entita' del  comportamento  illecito  accertato  da  un  lato  e
dell'entita'  del  pregiudizio  che  puo'  derivare  all'ente  -   in
relazione a comportamenti ontologicamente  diversi  oppure  posti  in
essere con  minore  o  maggiore  gravita',  e,  quindi,  notevolmente
disomogenei, ed incidenti percio' in misura diversa  sul  pregiudizio
dell'ente, di fatto piu' o  meno  grave,  determina  una  illogica  e
ingiustificata disparita' di trattamento, in possibile contrasto  con
il principio di pari dignita'  sociale  e  di  eguaglianza,  tutelato
dall'art. 3, comma 1, della Costituzione. 
    3.b.) Al riguardo, la Corte  costituzionale  ha  preso  in  esame
l'art. 11, commi 1 e 4, del decreto legislativo  n.  235/2012,  anche
con riferimento all'art. 3 della  Costituzione,  ma  in  relazione  a
profili diversi da quelli ora sollevati. Precisamente, nella sentenza
276/2016  ha  escluso  la  fondatezza  della  censura,  formulata  in
relazione all'art. 3, della illegittimita' della sospensione per  non
essere stata prevista la soglia minima superiore a due anni  di  pena
con la condanna non definitiva, per come e' stabilito ai  fini  della
incandidabilita' per i parlamentari nazionali ed europei;  e  con  la
successiva sentenza 36 del 2019 ha  dichiarato  l'infondatezza  della
questione  di  legittimita'  costituzionale,  sollevata   anche   con
riferimento all'art. 3 della Costituzione, nella  parte  in  cui  non
prevede che la sospensione si applichi solo nel caso di  sentenze  di
condanna non definitive emesse dopo l'elezione. Trattasi, quindi,  di
profili diversi da quelli in questa sede presi in esame. 
    In ordine alla necessita' di una valutazione di congruita'  della
misura, in relazione al comportamento in concreto del  suo  autore  -
necessaria per evitare la violazione dell'art. 3 della Costituzione -
spunti interessanti possono trarsi anche dalle recenti sentenze della
Corte  costituzionale  5  dicembre   2018,   n.   222,   in   materia
fallimentare,  che  ha  dichiarato  l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267,
nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei  fatti  previsti
dal  presente  articolo  importa  per  la  durata   di   dieci   anni
l'inabilitazione  all'esercizio  di   una   impresa   commerciale   e
l'incapacita' per la stessa durata  ad  esercitare  uffici  direttivi
presso qualsiasi impresa», anziche': «la condanna per uno  dei  fatti
previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio
di una impresa  commerciale  e  l'incapacita'  ad  esercitare  uffici
direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni») e la  sentenza
20  febbraio  2020,  n.  24,  che  ha  dichiarato   «l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 120, comma 2,  del  decreto  legislativo  30
aprile 1992, n. 285 (Nuovo  codice  della  strada),  come  sostituito
dall'art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n.  94
e come modificato dall'art. 19, comma 2, lettere a) e b), della legge
29 luglio 2010, n. 120 e  dall'art.  8,  comma  l,  lettera  b),  del
decreto legislativo 18 aprile 2011, n. 59, nella parte in cui dispone
che il prefetto "provvede" - invece  che  "puo'  provvedere"  -  alla
revoca della patente di  guida  nei  confronti  di  coloro  che  sono
sottoposti a misura di sicurezza personale». 
    Peraltro va evidenziato che per le misure cautelati  interdittive
previste dal codice di  procedura  penale  (tra  cui  la  sospensione
dall'esercizio di un pubblico ufficio - art. 289 c.p.c. - che non  si
applica  agli  uffici  elettivi  ricoperti  per  diretta  investitura
popolare), in applicazione dei principi di adeguatezza della  singola
misura in relazione al caso concreto e  di  proporzionalita',  l'art.
308 codice di procedura civile non prevede una durata  fissa,  bensi'
una durata massima (dodici mesi) e, in base al  diritto  vivente  (v.
C.,  Sez.  V,  18  novembre  2015-14  gennaio  2016,  n.   1325)   la
determinazione  del  termine  di  durata  deve  essere  sorretta   da
un'idonea motivazione che dia conto delle ragioni  considerate  anche
in relazione alle ritenute esigenze cautelari da salvaguardare. 
    3.c.) La non  manifesta  infondatezza  si  rileva  nel  combinato
disposto  dell'art.  3,  comma  1,  gia'  illustrato,  con  le  altre
disposizioni contenute negli articoli della Costituzione 97, comma 1,
51, comma 1, e 48, commi 1 e 2. 
    In ordine alla protezione dell'interesse pubblico (art. 97, comma
1, della Costituzione), che costituisce la ratio dell'istituto  della
sospensione cautelare, prevista dall'art. 11 citato, va rilevato  che
trattasi della tutela dell'ente -  presso  cui  espleta  la  funzione
elettiva il soggetto - dal pregiudizio in  concreto  all'immagine  ed
allo  svolgimento  ordinato  dell'attivita'  politico-amministrativa,
conseguente  ai  comportamenti  illeciti  del  soggetto,   per   come
accertati in sede penale. 
    Riguardo al pregiudizio subito dall'ente, e' di comune esperienza
che, in relazione alla disomogenea platea dei reati, dai quali deriva
ex lege la sospensione,  e  della  minore  o  maggiore  gravita'  del
comportamento posto in essere  dall'autore,  questo  puo'  essere  di
maggiore o minore entita'. Quindi, l'interesse pubblico dell'ente non
si presenta sempre della stessa consistenza. 
    3.d.)   Ora   -   in   relazione   all'ampliamento   dei   reati,
antologicamente diversi e di  diverso  allarme  anche  sociale  e  di
diversa incidenza quindi sul pregiudizio dell'ente, la  cui  condanna
non  definitiva  da'  luogo  alla  sospensione  dall'esercizio  della
pubblica funzione elettiva - non appare manifestamente  infondata  la
questione di incostituzionalita' delle  disposizioni  sopra  indicate
nella parte in cui, prevedendo la sospensione in  misura  fissa,  non
consentono di valutare, ai fini  della  determinazione  della  misura
della sospensione, l'entita' del pregiudizio dell' ente. 
    Proprio questo ampliamento delle fattispecie criminose in qualche
modo fa apparire superata la sentenza n. 206 del 1999, con  la  quale
la Corte costituzionale rigetto' le eccezioni di  incostituzionalita'
relative all'art. 15 della legge 55 del 1990, ritenendo  giustificato
il  bilanciamento  in  astratto  operato  dal  legislatore,  con   la
considerazione della «caratteristica  che  tutti  li  accomuna  (quei
reati danti luogo alla  sospensione):  di  essere  cioe'  delitti  di
criminalita'  organizzata  (associazione  per  delinquere  di  stampo
mafioso, traffico di stupefacenti, traffico di armi,  favoreggiamento
in relazione agli stessi reati). Si tratta cioe'  di  delitti  per  i
quali la sussistenza di un'accusa a carico di pubblici  impiegati  fa
sorgere immediatamente il sospetto di un  inquinamento  dell'apparato
pubblico  da  parte  di  quel  organizzazioni   criminali,   la   cui
pericolosita' sociale va al di la' della gravita' dei singoli delitti
che vengono commessi o contestati.». 
    Infatti, l'art. 11, comma 1 del decreto legislativo n.  235/2012,
ai fini della sospensione richiama il precedente art.  10,  comma  l,
lettere a),  b)  e  c),  che  elenca  i  seguenti  reati  di  diversa
consistenza e pericolosita': 
        «a) coloro che hanno riportato  condanna  definitiva  per  il
delitto previsto dall'art. 416-bis del codice penale o per il delitto
di  associazione  finalizzata  al  traffico  illecito   di   sostanze
stupefacenti  o  psicotrope  di  cui  all'art.  74  del  testo  unico
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990,
n. 309, a per un delitto di cui all'art. 73 del  citato  testo  unico
concernente la produzione o il traffico di dette sostanze, o  per  un
delitto concernente la fabbricazione, l'importazione, l'esportazione,
la vendita o cessione, nonche', nei casi in cui sia inflitta la  pena
della reclusione non inferiore ad un anno, il porto, il  trasporto  e
la detenzione di armi, munizioni  o  materie  esplodenti,  o  per  il
delitto di favoreggiamento personale o reale commesso in relazione  a
taluno dei predetti reati; 
        b) coloro che  hanno  riportato  condanne  definitive  per  i
delitti, consumati o tentati, previsti dall'art. 51,  commi  3-bis  e
3-quater, del codice di procedura penale, diversi da quelli  indicati
alla lettera a); 
        c) coloro che  hanno  riportato  condanna  definitiva  per  i
delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318,
319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322,  322-bis,  323,
325, 326, 331, secondo comma, 334, 346-bis del codice penale;». 
    Trattasi di reati edittalmente gravi; ma poiche'  ai  fini  della
sospensione  rileva  il  pregiudizio   che   subirebbe   l'ente   dal
mantenimento  della  funzione  elettiva   da   parte   del   soggetto
condannato, non appare peregrino ritenere che occorra una verifica in
concreto  dell'entita'  del  pregiudizio,  in  relazione   anche   ai
contrapposti interessi che vengono di seguito illustrati,  e  tenendo
sempre  presente  il  principio  di  incolpevolezza  in  favore   del
condannato con sentenza non definitiva. 
    3.e.) Se la sospensione cautelare della funzione  elettiva  trova
giustificazione nell'interesse pubblico  dell'ente,  come  protezione
dal pregiudizio concreto derivante dal  comportamento  attribuito  al
soggetto, s'impone una verifica della costituzionalita'  della  norma
anche nella  parte  in  cui  non  sono  presi  in  considerazione  la
tipologia  del  reato  e  la   minore   o   maggiore   gravita'   del
comportamento, tenuto conto degli interessi che trovano tutela  negli
articoli 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2, della Costituzione. 
    L'art. 51 Costituzione porta tutela costituzionale in favore  del
soggetto eletto non solo con riguardo all'accesso, bensi'  anche  con
riguardo  al  mantenimento  dell'esercizio  della  pubblica  funzione
elettiva, la quale, essendo di per se' limitata nel  tempo,  potrebbe
risultare gravemente compromessa e non  altrimenti  recuperabile  dal
soggetto  condannato,  nel  caso   di   successivo   proscioglimento.
All'interesse  costituzionalmente  garantito   dell'eletto   non   e'
peregrino aggiungere  anche  -  ad  avviso  di  questo  remittente  -
l'interesse della  comunita'  che  l'ha  eletto  a  che  la  funzione
continui  ad  essere   esercitata   dal   cittadino   che   essa   ha
democraticamente  prescelto,  interesse   costituzionale   che   puo'
costituire un corollario del diritto all'elettorato  attivo,  sancito
all'art. 48, commi 1 e 2 della Costituzione. 
    Invero il diritto costituzionale di partecipare attivamente  alla
scelta del candidato,  al  quale  attribuire  una  pubblica  funzione
elettiva, che si  estrinseca  anche  nel  diritto  di  contestare  il
risultato  elettorale  o  di  intervenire  ad  adiuvandum  oppure  ad
opponendum in un giudizio elettorale  instaurato  da  altri,  sarebbe
monco ove non si riconoscesse come corollario un interesse a  che  il
candidato prescelto eserciti la funzione elettiva. 
    3.f.)  In  conclusione,  il  mancato  bilanciamento   di   questi
interessi, costituzionalmente previsti dagli articoli  97,  comma  1,
dall'art. 51, comma 1, dall'art. 48,  commi  1  e  2  -  non  essendo
prevista una determinazione della misura temporale della  sospensione
cautelare da parte dell'autorita' emanante, che  sia  conseguente  ad
una valutazione in concreto del  pregiudizio  dell'ente,  inciso  dai
fatti accertati in sede penale, da un lato,  e,  dall'altro,  ad  una
valutazione della tipologia del reato  accertato  in  sede  penale  e
della minore o maggiore gravita' del  comportamento  del  soggetto  -
rende non  manifestamente  infondato  il  rilievo  di  illegittimita'
costituzionale, per illogica disparita' di trattamento in  violazione
dei principi di pari  dignita'  sociale  e  di  eguaglianza,  di  cui
all'art. 3, comma 1, della Costituzione, in relazione, appunto,  agli
articoli 97, comma 1, all'art. 51, comma 1, all'art. 48, commi 1 e 2,
in relazione al principio di incolpevolezza di cui all'art. 27, comma
1, in favore del ricorrente, in quanto condannato  con  sentenza  non
definitiva. 
4. Sulla rilevanza e ammissibilita' della questione. 
    La  questione  e'  certamente  rilevante.  Oggetto  del  presente
giudizio e' la legittimita'  del  provvedimento  prefettizio  con  il
quale e' stata disposta, ai sensi dell'art. 11, comma 1, del  decreto
legislativo  n.  235  del  31  dicembre  2012,  la  sospensione   del
ricorrente dalla funzione elettiva di sindaco del Comune di ...,  per
la durata de iure di diciotto mesi  -  salvo  i  casi  di  cessazione
anticipata per proscioglimento o per subentro della decadenza. 
    Ai fini  della  decisione  rileva,  quindi,  se  le  disposizioni
applicate con il provvedimento del prefetto siano o non inficiate  da
illegittimita' costituzionale. 
    La questione sollevata appare anche ammissibile, considerato che,
ove accolta, non occorre alcun intervento ulteriore  del  legislatore
per il funzionamento dell'istituto. 
    Invero,  con  riguardo  al  primo   comma   e'   sufficiente   la
sostituzione, nel primo comma dell'art. 11 delle parole «Sono sospesi
di diritto» con le parole «sono sospesi sino a diciotto mesi», mentre
riguardo al  comma  4,  e'  sufficiente  la  soppressione  del  primo
periodo: «La sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi
diciotto  mesi.».  Cio'  comportera'  implicitamente  il  potere  del
prefetto di determinare la durata della sospensione sino  al  massimo
di diciotto mesi, senza che occorra alcun intervento del  legislatore
neppure in ordine ai criteri  per  la  determinazione  della  durata,
derivanti  direttamente  dal  bilanciamento  dall'interesse  pubblico
dell'ente,  per  come  gia'  individuato  da  codesta  ecc.ma   Corte
costituzionale, e dalla tipologia del reato e della  consistenza  del
comportamento del suo autore, avuto riguardo agli interessi  tutelati
dagli articoli 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2,  ed  ai  principi  che
discendono dall'art. 3, comma 1, della Costituzione. 
 
                          Periculum in mora 
 
    Nella specie, ritenuta la sussistenza del  fumus  boni  iuris  in
base alle considerazioni che precedono, e' da ritenere che  sussista,
altresi',  anche  il   periculum   in   mora,   in   relazione   alla
compromissione del fondamentale diritto di elettorato passivo che non
potrebbe  trovare  alcuna  congrua   forma   di   ristoro   in   sede
risarcitoria, considerata peraltro la durata temporalmente delimitata
del mandato elettivo. 
    Invero,   l'applicazione   del   provvedimento   prefettizio   di
sospensione,  laddove  fossero  fondati   i   dubbi   riguardo   alla
legittimita' costituzionale delle norme di cui sopra e, quindi, circa
la  sua   legittimita',   comporterebbe   un'indebita   e   eccessiva
restrizione  all'esercizio  dell'elettorato  passivo  e  del   libero
svolgimento del mandato elettorale,  con  conseguente  danno  per  il
dott. P non riparatile ne' risarcibile. 
    La gravita' e l'irreparabilita' del  danno  impongono  l'adozione
della misura cautelare richiesta; di conseguenza deve essere disposta
la  sospensione  cautelare  provvisoria  degli  effetti  del  decreto
prefettizio  impugnato  fino  alla   udienza   che   verra'   fissata
successivamente alla  definizione  della  questione  di  legittimita'
costituzionale sollevata da questo Tribunale.