TRIBUNALE DI CATANIA Prima Sezione Civile Il Tribunale, riunito in Camera di consiglio e composto dai magistrati: dott. Massimo Escher, Presidente; dott.ssa Maria Acagnino, giudice; dott.ssa Viviana A. Di Gesu, giudice relatore, ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 9361-1/2020 R.G., promossa da P S D A , (C.F.: PGLSVT72C03C351B) nato a ..., rappresentato e difeso, come da procura in atti, dall'avv. Eugenio Marano e dall'avv. Claudio Milazzo; contro Ministero dell'interno - Prefettura di Catania - Ufficio Territoriale del governo, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentati e difesi ope legis dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, sede di Catania e con l'intervento del pubblico ministero presso il Tribunale di Catania, in persona della dott.ssa Agata Santonocito; Osserva Con decreto del 24 luglio 2020 il Prefetto della Provincia di Catania - esaminata la sentenza n 3362/2020 con la quale il Tribunale di Palermo, ai sensi degli articoli 2, 62-bis, 81 e 314, C. P. , ha condannato tra gli altri S D A P alla pena di anni quattro e mesi tre di reclusione, e, accertata in base agli articoli 10 e 11 decreto legislativo 31 dicembre 2012 n. 235 la sussistenza della causa di sospensione di diritto dalla carica di sindaco del Comune di ... - adottava il provvedimento di sospensione per la durata di diciotto mesi, nei confronti del dott. S D A P. L'interessato ha proposto ricorso ex art. 22 decreto legislativo 1° settembre 2011 n. 150 avverso il suddetto provvedimento e, successivamente, con ricorso cautelare depositato telematicamente in data 26 agosto 2020, ha chiesto disporsi la sospensione del provvedimento impugnato e la sua reintegra nella carica di sindaco del comune di ..., nonche' la sospensione del giudizio con rimessione alla Corte costituzionale delle questioni di legittimita' costituzionale prospettate nel ricorso introduttivo. A sostegno della domanda cautelare, il dott. P deduce l'illegittimita' costituzionale dell'art. 11 del citato decreto legislativo n. 235/2012, in applicazione del quale era stata disposta la sospensione dalla carica di sindaco, per i seguenti motivi: A.1) illegittimita' costituzionale dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012 per violazione dell'art. 27, comma 2, della Costituzione e dell'art. 6, comma 2, dalla Convenzione europea dei diritto dell'uomo, per la violazione del principio di presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva in quanto la condanna non definitiva non autorizzerebbe, in virtu' dell'art. 27, secondo comma, Cost. a presumere accertata l'esistenza di «una situazione di indegnita' morale»; A.2) illegittimita' costituzionale dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012 per violazione dell'art. 3, 48, 51, 76, 77 della Costituzione, per la irragionevole disparita' di trattamento determinata dagli articoli 10 e 11 del decreto legislativo n. 235/2012 rispetto ai parametri costituzionali di cui agli articoli 3, 51, 76 e 77 della Costituzione. Sostiene, al riguardo, che la disparita' di trattamento e la violazione dei principi costituzionali sarebbe ancor piu' evidente ove si consideri che la sospensione in caso di condanna non definitiva e' prevista esclusivamente per le cariche regionale e locali, mentre la legge Severino non prevede la sospensione per i componenti della Camera dei deputati, del Senato della Repubblica, del Parlamento europeo e per chi ricopre incarichi di Governo; A.3) illegittimita' costituzionale dell'art. 11 decreto legislativo n. 235/2012 per violazione degli articoli 3, 51, 54, comma 2, e 97, comma 2, della Costituzione per l'«evidente impatto negativo che una misura come la sospensione di diritto, appositamente. prevista per tutelare il buon andamento della pubblica amministrazione, puo' determinare in danno al medesimo principio costituzionale»; A.4) illegittimita' costituzionale del decreto legislativo n. 235/2012 (art. 11, comma 4) per violazione degli articoli 3, 48, 51 e 97 della Costituzione e dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Il comma 4 dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235 del 2012 stabilisce una durata fissa della sospensione di diritto dalla carica nell'ipotesi di condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all'art. 10, comma 1, lettera a), b) e c) statuendo che «La sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi». Evidenzia al riguardo il ricorrente che la durata fissa della sospensione di cui all'art. 11 della legge Severino prescinde del tutto dalla valutazione della gravita' dei fatti e/o comunque dalla gravita' della condotta e/o dal tempo in cui e' stata commessa e da una puntuale verifica delle circostanze, quali, ad esempio, il momento in cui interviene la sospensione, che potrebbe essere a fine o inizio mandato, o comunque dalla diversita' della carica ricoperta anche in relazione alla programmazione dell'ente di appartenenza; A.5) illegittimita' costituzionale degli articoli 10 e 11 decreto legislativo n. 235/2012 per violazione dell'art. 117 della Costituzione e dello Statuto della Regione siciliana. Sostiene il ricorrente che la normativa di cui al decreto legislativo n. 235/2012 dovrebbe essere applicabile solo limitatamente a quei profili generali che si dimostrano, in concreto, coerenti con la ratio legis ispiratrice e, soprattutto, costituzionalmente armonici tanto rispetto al riparto delle competenze legislative tra Stato e Regione siciliana, quanto alla tutela del diritto di elettorato passivo; A.6) illegittimita' costituzionale del decreto legislativo n. 235/2012 per violazione degli articoli 2, 4, 25, 51 e 97 della Costituzione, dell'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile e degli articoli 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, in quanto l'applicazione retroattiva del disposto di cui alla suddetto decreto legislativo si porrebbe in contrasto con gli articoli 2, 4, secondo comma, 25, comma 2, 51, primo comma e 97, secondo comma della Costituzione; B.) il ricorrente inoltre eccepisce l'illegittimita' del decreto prefettizio di sospensione dalla carica per incompetenza, eccesso di potere, difetto di istruttoria e motivazione e omessa comunicazione dell'avvio del procedimento. Si e' costituita per la Prefettura di ..., la locale Avvocatura distrettuale dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. Evidenzia l'Avvocatura che il profilo di illegittimita' costituzionale sollevato dal ricorrente in relazione all'art. 27 comma 2 della Costituzione si innesta nell'ambito di un esame gia' ampiamente effettuato dalla Corte costituzionale, addirittura con riferimento alla fattispecie prevista dalla previgente normativa (art. 15 legge n. 55/1990). Osserva poi che appaiono infondate le ulteriori eccezioni di incostituzionalita' sollevate dal ricorrente con riferimento agli articoli 3, 48, 51, 76 e 77 della Costituzione, trattandosi, anche in tal caso, di censure gia' esaminate dalla Corte costituzionale, in relazione alle quali ha avuto occasione di ribadire, in termini inequivocabili, la legittimita' costituzionale delle succitate disposizioni di legge. Rappresenta che alle medesime conclusioni di manifesta infondatezza era giunta la Corte costituzionale nell'esaminare le questioni di incostituzionalita' concernenti il vizio di eccesso di delega - in attuazione della delega legislativa contenuta nei commi 63 e 64 dell'art. 1, legge n. 190/2012 - per violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, n. 163 del 2000; sentenza 210/2015; v. anche le sentenze 98/2015, 229 e 50 del 2014, 119/2013, 341/2007, 425/2000). L'Avvocatura, inoltre, sostiene l'infondatezza della questione di incostituzionalita' prospettata dal ricorrente con riferimento agli articoli 3, 48, 51 e 97 della Costituzione, laddove l'istituto della sospensione «di diritto» viene dal ricorrente stigmatizzato come il risultato di un irragionevole e arbitrario bilanciamento compiuto dal legislatore fra il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione, da un lato, e il diritto di elettorato passivo, dall'altro, avendo, con riguardo a tale bilanciamento, la Corte costituzionale costantemente escluso profili di irragionevolezza e/o arbitrio. Quanto all'eccezione di incostituzionalita' per violazione del principio di irretroattivita' della legge penale ex art. 25, secondo comma, della Costituzione nonche' per contrasto con l'art. 11 delle Preleggi (Disposizioni preliminari al codice civile) e con gli articoli 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, l'Avvocatura richiama il costante orientamento della Corte costituzionale, la quale, rimarcando la natura sostanzialmente non afflittivo-punitiva della misura cautelare sospensiva nel diritto interno, anche alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo giunge alla seguente conclusione: «... dal quadro delle garanzie apprestate dalla CEDU come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo non e' ricavabile un vincolo ad assoggettare una misura amministrativa cautelare, quale la sospensione dalle cariche elettive in conseguenza di una condanna penale non definitiva, al divieto convenzionale di retroattivita' della legge penale. Mentre e' compatibile con quel quadro la soluzione adottata dal legislatore italiano con la finalita' di evitare ""che la permanenza in carica di chi sia stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendono la pubblica amministrazione [possa] comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall'art. 97, secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione, e dall'art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche "il dovere di adempierle con disciplina ed onore""» (sentenze 236/2015 e 276/2016). Infine l'Avvocatura contesta le doglianze del ricorrente in ordine all'asserita illegittimita' del provvedimento di sospensione, sotto il triplice profilo dell'incompetenza, dell'eccesso di potere e del difetto di motivazione e/o istruttoria. Sul punto sostiene che «Tale ricostruzione e' facilmente confutabile in forza del tenore letterale dell'art. 11, comma 5, decreto legislativo n. 235/2012, che espressamente attribuisce all'autorita' prefettizia il potere di accertamento circa la sussistenza della causa di sospensione e il compito di successiva notifica del relativo provvedimento, gia' adottato, agli organi succitati. Ugualmente priva di fondamento risulta la doglianza circa, l'omessa istruttoria che inficerebbe il provvedimento in parola. E' invero evidente che il provvedimento con cui il prefetto accerta l'esistenza di una causa di sospensione "di diritto" dalla carica elettiva costituisce un atto dovuto e vincolato ... con conseguente attivazione del principio di salvaguardia di cui all'art. 21-octies, comma 2, legge n. 241/90 (cfr. Tribunale amministrativo regionale Lazio - Roma, sentenza 5047/2015).» Evidenzia dunque che trattandosi di provvedimento vincolato, non e' necessario nella fattispecie, come chiarito, l'espletamento di ulteriore istruttoria, ne' la comunicazione di avvio del procedimento ex legge n. 241/1990. La Procura della Repubblica, intervenuta nel procedimento, ha analogamente chiesto il rigetto del ricorso, ed ha puntualmente contestato tutti i profili di illegittimita' costituzionale sollevati dal ricorrente, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale che si e' pronunciata sulle suddette questioni. In particolare, il pubblico ministero evidenzia che «la Corte costituzionale ha valutato positivamente la legittimita' delle disposizioni del decreto legislativo n. 235/12 nelle sentenze n. 236 del 2015, n. 276 del 2016, n. 214 del 2017, n. 36 del 2019 e n. 46 del 2020; e la legittimita' delle omologhe disposizione dell'art. 15 legge n. 55/1990 nelle sentenze n. 407/1992 n. 288 del 1993, n. 184/1994 n. 295/1994 n. 141 del 1996 (con tale norma e' stata ritenuta la illegittimita' dell'art. 15 nella sola parte in cui corredava la ineleggibilita' al mero rinvio a giudizio), n. 364 del 1996, n. 132/2001 e n. 25 del 2002. Il fulcro delle argomentazioni, coerentemente articolate dalla Consulta negli ultimi diciotto anni, si individua nella natura della sospensione della cui legittimita' si dubita e nella finalita' che essa e' destinata a soddisfare. La natura cautelare e non sanzionatoria della sospensione prevista dall'art. 11 decreto legislativo n. 235/2012, e' stata affermata nelle predette sentenze e argomentata adeguatamente, anche mediante la valutazione dei cd. Criteri Engel enucleati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (la qualificazione dell'illecito operata nel diritto nazionale; la natura della sanzione, alla luce della sua funzione punitiva-deterrente; la sua severita' ovvero la gravita' del sacrificio imposto). La Corte costituzionale in modo particolare nella sentenza n. 276/2016, ha compiutamente argomentato circa la insussistenza di indici del carattere sanzionatorio della norma in parola alla luce dei predetti criteri evidenziando, in estrema sintesi, che: la sospensione prevista dall'art. 11, decreto legislativo n. 235/12 non riveste natura di sanzione penale nel diritto interno italiano; talune restrizioni del diritto di elettorato passivo, assimilabili a quella oggetto del presente giudizio, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sono state collocate al di fuori della sfera penale per quanto collegate alla commissione di un illecito, in ragione della loro finalita' principale di proteggere l'integrita' di una pubblica amministrazione e cio' a prescindere dall'eventuale coincidenza del contenuto delle predette restrizioni con una sanzione accessoria a una sanzione penale. La stessa automaticita' dell'applicazione della sospensione, resa evidente nella mancanza di discrezionalita' dell'autorita' amministrativa chiamata ad accertare l'intervenuta causa di sospensione, depone per il fatto che l'incapacita' giuridica temporanea di cui si discute non consegua a un giudizio di riprovazione personale, ma e' semplicemente diretta a garantire l'oggettiva onorabilita' di chi riveste la funzione di cui si tratta. Con riferimento alle conseguenze sfavorevoli per colui che e' colpito dalla misura, considerato che deve farsi riferimento alla durata massima, e' stato evidenziato il difetto della speciale gravita' del sacrificio imposto sia in termini oggettivi di durata sia in termini soggettivi di detrimento della reputazione. Quanto a quest'ultimo aspetto, deve aggiungersi che la sospensione dall'incarico, proprio per il suo carattere automatico, non e' idonea a incidere negativamente sulla reputazione di chi e' colpito in misura maggiore e diversa di quanto gia' non abbia fatto la sentenza di condanna che costituisce presupposto del provvedimento. Quanto alla finalita' della sospensione prevista dall'art. 11, decreto legislativo n. 235/12 deve osservarsi, come si e' piu' volte evidenziato nella giurisprudenza della Corte costituzionale relativa sia all'art. 15 della legge n. 55/1990 che al decreto legislativo n. 235/2012, che originariamente la finalita' della norma era quella di costituire "una sorta di difesa avanzata dello Stato contro il crescente aggravarsi del fenomeno della criminalita' organizzata e dell'infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali" (cfr. Corte costituzionale n. 407/1992, riportata in parte qua anche nella sentenza n. 276 del 2016) avendo la finalita' di salvaguardare l'ordine e la sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche; successivamente il carattere di diffusa illegalita' nella pubblica amministrazione indusse ad allargare l'ambito soggettivo ed oggettivo della disciplina a tutela degli interessi costituzionali protetti dagli articoli 54, secondo comma e 97 secondo comma Cost. (cfr. Corte costituzionale n. 276 del 2016). In altri termini lo scopo della norma e' quello di tutelare la pubblica amministrazione: (..) Di fronte ad una grave situazione di illegalita' nella pubblica amministrazione, infatti, non e' irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti (per quanto qui interessa contro la pubblica amministrazione) susciti l'esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica per evitare un "inquinamento" dell'amministrazione e per garantire ""la credibilita' dell'amministrazione presso il pubblico, cioe' il rapporto di fiducia dei cittadini verso l'istituzione, che puo' rischiare di essere incrinato dall'"ombra" gravante su di essa a causa dell'accusa cui e' colpita una persona attraverso la quale l'istituzione stessa opera"" (cfr. sentenze della Corte costituzionale 236/15, 206/1999). Orbene, essendo notoriamente ancora sussistente una grave situazione di illegalita' nella pubblica amministrazione permane l'esigenza, valorizzata dalla Corte costituzionale di preservare gli apparati pubblici dal pericolo di inquinamento e di tutelarne la credibilita' presso i cittadini. Tale esigenza rende ancora non irragionevole, attualmente, la temporanea compressione del diritto di elettorato passivo in dipendenza dell'emissione di una sentenza di condanna». Cosi' delineato il quadro delle deduzioni del ricorrente, dell'Avvocatura dello Stato e del pubblico ministero, va osservato quanto segue. 1. In merito alla ammissibilita' del ricorso, alla sussistenza della giurisdizione ordinaria ed alla corretta impostazione in rito. Preliminarmente occorre ribadire la giurisdizione del giudice ordinario e la correttezza del rito prescelto, profili che - seppur non siano stati oggetto di contestazione ne' da parte dell'Avvocatura dello Stato ne' da parte del pubblico ministero - si ritiene opportuno puntualizzare. Al riguardo le Sezioni Unite della Corte di cassazione (n. 11131/15) hanno avuto modo di chiarire che «In tema di impugnazione del provvedimento che abbia disposto la sospensione di diritto dalla carica di amministratore locale per condanna penale non definitiva ai sensi dell'art. 11, comma 1, lettera a) della legge Severino (n. 235/2012), la giurisdizione deve essere attribuita al giudice ordinario posto che il provvedimento impugnato, pur avendo natura amministrativa, afferisce all'esercizio del diritto di elettorato passivo in termini di esecuzione del mandato». La Corte di cassazione ha, dunque, individuato chiaramente la questione dell'opposizione ai detti provvedimenti sospensivi come «di diritto soggettivo», con conseguente giurisdizione del G.O., e l'ha ricondotta tra le controversie previste dall'art. 22, decreto legislativo n. 22/2011, controversie regolate dal rito sommario di cognizione e decise dal Tribunale in composizione collegiale con la partecipazione del pubblico ministero. La Suprema Corte ha altresi' riconosciuto l'ammissibilita' della tutela cautelare invocata, che concerne diritti fondamentali aventi rilievo costituzionale. Al riguardo, ha evidenziato in Sez. Un., 18 novembre 2015, n. 23542 che «proprio in ragione dell'effettivita' della tutela d'urgenza, la giurisprudenza costituzionale ha ammesso che il giudice rimettente, sia speciale (ord. n. 3 e n. 58 del 2014; sentenza n. 83 del 2013; sentenza n. 172 del 2012; ordinanza n. 211 e n. 307 del 2011) che - secondo un piu' recente arresto (sent. n. 274 del 2014) - anche ordinario, possa, senza esaurire il suo potere giurisdizionale d'urgenza, adottare misure provvisorie per accordare una tutela interinale nel tempo occorrente per la definizione del giudizio incidentale di costituzionalita' e con un contenuto che intanto, limitatamente a questo lasso di tempo, schermi la norma indubbiata nella parte e nella misura in cui il giudice adito abbia espresso dubbi di non manifesta infondatezza della questione sollevata. Ricorrente nella giurisprudenza della Corte e' l'affermazione secondo cui il giudice ben puo' sollevare questione di legittimita' costituzionale in sede cautelare anche quando conceda provvisoriamente la relativa misura su riserva di riesame della stessa nello stesso tempo sospenda il giudizio con l'ordinanza di rimessione, purche' tale concessione non si risolva, per le ragioni addotte a suo fondamento, nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice amministrativo e' dotato. Infatti la potestas iudicandi non puo' ritenersi esaurita quando la concessione della misura cautelare e' fondata, quanto al fumus boni iuris, sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, dovendosi in tal caso ritenere che la sospensione dell'efficacia del provvedimento impugnato abbia carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l'incidente di legittimita' costituzionale». 2. Sul fumus boni iuris. Come sopra illustrato, il ricorrente ha formulato sette ordini di motivi, da A.1 ad A.6 e B). Nei primi sei motivi sub A, formula censure di illegittimita' costituzionale dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012; la censura sub B ha per oggetto l'illegittimita' del provvedimento prefettizio, per incompetenza, eccesso di potere, difetto di istruttoria e motivazione e omessa comunicazione dell'avvio del procedimento. 2.a.) Per ordine logico, occorre prendere in esame queste ultime censure. 2.a.1.) Assume il ricorrente che la competenza ad emettere il provvedimento di sospensione della carica spetti al Consiglio comunale, organo di convalida dell'elezione del sindaco. Il motivo e' palesemente infondato. La disposizione in questione e' contenuta nell'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012, il quale, al comma quinto, cosi dispone: «A cura della cancelleria del tribunale o della segreteria del pubblico ministero i provvedimenti giudiziari che comportano la sospensione sono comunicati al prefetto, il quale, accertata la sussistenza di una causa di sospensione, provvede a notificare il relativo provvedimento agli organi che hanno convalidato l'elezione o deliberato la nomina.». Da tale norma, che pur non brilla per chiarezza, non possono sorgere dubbi sulla competenza prefettizia, e cio' per diversi ordini di profili: a) l'espressione resterebbe monca poiche' non dispone testualmente che la sospensione e' adottata dall'Organo destinatario della notificazione prefettizia; b) oggetto della notificazione sarebbero stati - a seguire l'interpretazione della norma da parte ricorrente - non «il relativo provvedimento», che, appunto, appare chiaramente riferirsi al termine «sospensione» che lo precede, bensi', piu' precisamente, due atti: la sentenza del tribunale e le conclusioni circa la sussistenza dei presupposti per l'adottanda sospensione cui era pervenuto il prefetto; e) in Sicilia l'elezione del sindaco si conclude con la proclamazione dell'eletto (articoli 8, 10 della legge reg. 26 agosto 1992 n. 7) da parte del Presidente dell'Ufficio centrale elettorale (o del Presidente della prima sezione), il cui provvedimento e' definitivo, impugnabile con i noti ricorsi (art. 11). Il sindaco cosi' nominato giura poi davanti al Consiglio comunale e comunica allo stesso la composizione della giunta. Non esiste, quindi, in Sicilia, un Organo di convalida della elezione del sindaco e, a voler fare coincidere l'espressione «gli organi che hanno deliberato la nomina», con l'organo che emesso l'atto di proclamazione dell'eletto, va osservato che l'organo in questione (Presidente dell'ufficio elettorato o della prima sezione) cessa dalle sue funzioni con la conclusione delle elezioni, trattasi cioe' di un organo straordinario e non strutturato in un contesto amministrativo o assembleare, con la conseguenza che sarebbe stato abbastanza singolare che il provvedimento di sospensione fosse demandato ad un Organo straordinario, non piu' esistente al momento del venire in essere del fatto che da' luogo al provvedimento di sospensione. In realta' la notifica ha soltanto un valore di legale informazione all'eventuale organo (assembleare) che abbia convalidato l'elezione oppure all'organo assembleare che abbia deliberato a suo tempo la nomina. In buona sostanza la previsione normativa prende, al riguardo, in considerazione il caso in cui ci sia un organo assembleare strutturato, cui per legge o regolamento spetti l'adozione di un atto di convalida o di nomina del soggetto destinatario del provvedimento di sospensione emesso dal prefetto. Va dunque affermata la competenza del prefetto all'adozione del provvedimento di sospensione del sindaco dalla sua carica, ai sensi dell'art. 11 della legge n. 235 del 2012, a prescindere dal fatto che in un sistema elettorale (tra i diversi vigenti) sia prevista o non una convalida della elezione oppure la nomina del soggetto cui si riferisce la sospensione. D'altra parte va sottolineato che analogamente anche l'art. 1, comma 4-ter della legge n. 55 del 1999, introdotto dall'art. 1, comma 1 della legge n. 16 del 1992, applicabile in Sicilia ai sensi dell'art. 6 della legge reg. siciliana n. 7 del 1992, come sostituito dall'art. 36 della legge reg. n. 26 del 1993, di cui si dira' diffusamente in prosieguo, prevedeva la competenza del prefetto per i provvedimenti in questione. Quindi la norma di cui al comma 5 dell'art. 11 della legge n. 235/2012 non ha fatto altro che ricalcare le disposizioni precedentemente in vigore che attribuivano al prefetto il provvedimento di cui trattasi. 2.a.2.) Per come e' stato sottolineato anche dalle parti resistenti, va poi evidenziato che il provvedimento con cui il prefetto accerta l'esistenza di una causa di sospensione dalla carica elettiva costituisce un atto dovuto e vincolato, in quanto conseguenza ope legis della condanna non definitiva per determinate fattispecie delittuose (v. Cassazione civile, 11131/2015: «il decreto prefettizio che accerta la sussistenza della causa di sospensione e' provvedimento non discrezionale, ma vincolato»). Opera, pertanto, il principio di salvaguardia di cui all'art. 21-octies, legge n. 241/90, a norma del quale: «non e' annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non e' comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». E, in questo caso, il ricorrente non solleva questioni sull'interpretazione del contenuto della disposizione, bensi' ne mette in discussione la sua legittimita' costituzionale. 2.b.) Escluso, quindi, il fumus con riguardo alla censura sub B), sono da esaminare i motivi da A.1) ad A.6), con i quali sono sollevate censure di illegittimita' dell'art. 11 indicato, per diversi profili. 2.b.1.) Per ordine logico, va in primo luogo esaminato il motivo sub A.5) del ricorso, e cioe' la violazione dell'art. 117 Costituzione e dello Statuto siciliano, sotto il profilo che le disposizioni contenute nei commi 4 e 5 dell'art. 11, i quali disciplinano le «modalita' di accertamento» e le «sanzioni» incidenti sui diritti di elettorato passivo - sarebbero lesive delle prerogative regionali. Sul punto va rilevato che l'art. 14 della «legge Severino» stabilisce testualmente: «Le disposizioni in materia di incandidabilita' del presente testo unico si applicano nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e Bolzano.». Ora - anche a volere ritenere l'intento del legislatore delegato di escludere dall'applicabilita' ex se alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e Bolzano le disposizioni non concernenti rigorosamente la materia dell'incandidabilita' (e connesse sanzioni) e, precisamente, quelle relative alla mera sospensione dalle funzioni, conseguente a provvedimenti giudiziari, inidonei, appunto perche' non definitivi, a determinare la incandidabilita' del soggetto - va tuttavia rilevato che la Regione Sicilia nella subiecta materia non ha emanato disposizioni proprie, preferendo la tecnica del rinvio alla legislazione statale. E infatti con l'art. 36 della legge regionale 1° settembre 1993 n. 26, contenente «Nuove norme per l'elezione con suffragio popolare del Presidente della provincia regionale, norme per l'elezione dei consigli delle province regionali, per la composizione ed il funzionamento degli organi di amministrazione di detti enti. Norme modificative ed integrative al testo unico approvato con dpreg 20 agosto 1960, n. 3, ed alla legge regionale 26 agosto 1992, n. 7», la Regione siciliana, sostituendo l'art. 6 della legge regionale 26 agosto 1992, n. 7, ha recepito la legislazione statale in materia, stabilendo: «Nella Regione siciliana si applicano le disposizioni di cui alla legge 18 gennaio 1992, n. 16.». La legge statale n. 16/1992, intitolata «Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali», dichiarata applicabile nella Regione siciliana con l'art. 36 sopra indicato, a sua volta, con l'art. 1 aveva sostituito i commi 1, 2, 3 e 4 dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, introducendo, in materia di candidabilita', sanzioni e sospensione dalle funzioni di pubblico amministratore per una serie di reati, tra i quali il peculato (art. 314 c.p.), con riguardo anche alle sentenze non definitive, disposizioni addirittura piu' rigorose di quelle contenute nell'attuale normativa adottata con il decreto legislativo n. 235/2012. L'art. 1 della legge n. 16/1992 e' stato poi abrogato dall'art. 274, decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e la materia di cui trattasi e' stata ivi disciplinata agli articoli 58 e 59, a loro volta abrogati dall'art. 17 del decreto legislativo n. 235/2012 (per come meglio si dira' in prosieguo). L'istituto della sospensione per sentenza non definitiva e', appunto, ora disciplinato dall'art. 11 della legge Severino. Dal mero rinvio fatto dal legislatore regionale del 1993 - in materia di provvedimenti da adottare a seguito di decisioni penali non definitive - alla legge statale n. 16 del 1992, nonche' dalla constatazione che, in prosieguo, il legislatore regionale siciliano non si e' piu' occupato della materia, a seguito della sostituzione delle disposizioni in detta legge contenute, con proprie normative, e' da evincere che la Regione siciliana con la legge regionale 26 agosto 1992, n. 7, abbia voluto fare ricorso all'istituto del c.d. rinvio dinamico, intendendo adeguare, in subiecta materia il proprio ordinamento a quello dettato dal legislatore statale. E', pertanto, manifestamente infondato il rilievo di incostituzionalita' degli articoli 10 e 11 del decreto legislativo n. 235 del 31 dicembre 2012, di cui al motivo A.5) del ricorso con riferimento allo Statuto regionale siciliano. 2.b.2.) Con gli altri motivi (sub A.1, A.2, A.3, A.4, A.6) il ricorrente ha anzitutto (punto A.1) eccepito l'illegittimita' costituzionale dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012 per violazione dell'art. 27, comma 2, della Costituzione e dell'art. 6, comma 2, dalla Convenzione europea dei diritto dell'uomo. Al fine di esaminare tale rilievo, nonche' i successivi, appare opportuno riassumere sinteticamente la sequenza evolutiva della disciplina della materia. Come e' noto, l'istituto della sospensione c.d. automatica o vincolata degli amministratori locali dalla carica ha avuto la sua prima fonte regolatrice nell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, che, nell'iniziale sua formulazione, al primo comma, prevedeva, appunto, siffatta sospensione, limitatamente agli amministratori «sottoposti a procedimento penale per il delitto di associazione di tipo mafioso (416 - bis) od a misura di prevenzione di cui al secondo comma». Questa originaria impostazione venne modificata dalla legge n. 16 del 1992, che, innovando in materia, con l'art. 1 (che sostitui' l'originario art. 15 della legge n. 55/1990) diversifico' le fattispecie, in relazione al titolo di reato, disponendo, con riguardo al reato qui d'interesse (art. 314 c.p.: peculato), l'incandidabilita', se la condanna (anche non definitiva) fosse intervenuta prima della presentazione delle liste, e la sospensione (a tempo indeterminato) a seguito di condanna non definitiva, con cessazione, nel caso di successivo proscioglimento, oppure decadenza, nel caso di definitiva condanna. La materia e' stata rielaborata dalla successiva legge n. 475 del 1999, che ha subordinato l'ineleggibilita' ad una condanna definitiva (per tal profilo recependo le indicazioni di Corte costituzionale n. 141-96) e, con riguardo alla sospensione cautelare, ne ha previsto l'automatica operativita' con rinvio (non gia' generico a tutte le ipotesi sub art. 15), bensi' alle (sole) ipotesi di cui alle lettere a) e b) dell'art. 15, mentre per quanto riguarda il delitto di peculato (limitatamente all'art. 314, comma 1), ha previsto la sospensione dall'incarico per diciotto mesi a seguito di' condanna non definitiva, tempo che poteva prolungarsi di altri dodici mesi, nel caso di conferma in appello. E' quindi sopravvenuto il testo unico 267-2000, che ha ripreso la legge n. 475-99 nella sua testuale formulazione, risultando, per altro, in detto ultimo corpo normativa, bensi' richiamata anche la disposizione di cui all'art. 15, n. 1, lettera c), legge n. 55-90 (e successive modificazioni) ma solo nel quadro delle cause ostative alla candidatura in presenza di condanna definitiva (v. Cassazione civile sez. I, 11 febbraio 2003, n. 1990). In seguito, a fronte del permanere di una situazione di grave e diffusa illegalita' nella pubblica amministrazione, la legge delega n. 190 del 2012 ha previsto una serie di misure per prevenire e reprimere tali fenomeni, tra le quali l'estensione dell'incandidabilita' e della decadenza ai parlamentari e alle cariche di Governo e l'ampliamento dei reati ostativi. Il decreto legislativo n. 235 del 2012 ha dunque riordinato la materia, in attuazione della delega contenuta nell'art. 1, comma 63, della legge n. 190 del 2012. La Corte costituzionale, in diverse occasioni, si e' pronunciata sia sulle norme di legge che hanno costituito i «precedenti» del decreto legislativo n. 235 del 2012 sia da ultimo su tale decreto (v. Corte costituzionale 236/2015 e 276/2016) escludendo che le misure della incandidabilita', della decadenza e della sospensione abbiano carattere sanzionatorio (si vedano anche le sentenze n. 25 del 2002, n. 132 del 2001, n. 206 del 1999, n. 295 n. 184 e n. 118 del 1994). La Consulta ha chiarito che tali misure non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l'accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento: «nelle ipotesi legislative di decadenza ed anche di sospensione obbligatoria dalla carica elettiva previste dalle norme denunciate non si tratta affatto di "irrogare una sanzione graduatile in relazione alla diversa gravita' dei reati, bensi' di constatare che e' venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l'ufficio pubblico elettivo" (sentenza n. 295 del 1994), nell'ambito di quel potere di fissazione dei "requisiti" di eleggibilita', che l'art. 51, primo comma, della Costituzione riserva appunto al legislatore» (sentenza n. 25 del 2002). La Consulta ha dunque chiarito che la sospensione dalla carica, in particolare, «risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio» e, trattandosi di sospensione, costituisce «misura sicuramente cautelare» (sentenza n. 236 del 2015, la quale si colloca nel solco tracciato dalle precedenti sentenze n. 25 del 2002, n. 206 del 1999 e n. 295 del 1994). Ora, la natura cautelare della misura prevista comporta che, ai fini dello scrutinio di legittimita' costituzionale, non rileva direttamente il parametro costituito dal principio di presunzione di non colpevolezza dell'imputato fino alla condanna definitiva, di cui all'art. 27, secondo comma, della Costituzione. Le misure cautelari, infatti, operano per definizione prima dell'accertamento definitivo della colpevolezza in ordine ai reati a cui esse pure talora (come nella specie) si collegano. La questione appare pertanto manifestamente infondata. 2.b.3.) Il dott. P lamenta, poi, nel punto A.2), l'illegittimita' costituzionale dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012 per violazione dell'art. 3, 48, 51, 76, 77 della Costituzione, in relazione a quanto stabilito nella legge delega (legge 6 novembre 2012, n. 190 recante le «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalita' nella pubblica amministrazione») il cui art. 1, al comma 64 , stabilisce che «Il decreto legislativo di cui al comma 63 provvede al riordino e all'armonizzazione della vigente normativa ed e' adottato secondo i seguenti principi e criteri direttivi: (...); m) disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica». In particolare, lamenta l'eccesso di delega determinato dal decreto legislativo n. 235/2012, per avere previsto agli articoli 8 e 11 - in violazione degli articoli 76 e 77, primo comma, della Costituzione, oltreche' degli articoli 3 e 51 Cost. (per irragionevolezza e disparita' di trattamento) - le ipotesi di sospensione dalla carica degli amministratori regionali e locali in assenza di una sentenza definitiva di condanna per i reati ivi contemplati. Al riguardo, si richiama quanto statuito dalla Corte costituzionale, che gia' ha escluso la sussistenza del vizio di eccesso di delega, chiarendo che: «La formulazione del comma 64, lettera m), del resto, non e' tale da escludere un'interpretazione in continuita' con il regime precedente, secondo la quale la legge delega non, intendeva affatto stravolgere l'assetto anteriore. Il sintagma successivo a "decadenza" ("dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica") puo' infatti essere riferito solo alla decadenza stessa e non anche alla sospensione, che resterebbe cosi' affidata alla disciplina di riordino del legislatore delegato senza la precisazione espressa dal citato sintagma da intendere riservata al solo istituto della decadenza. In mancanza di una chiara formulazione letterale della norma delegante e di fronte alla possibilita' di attribuirle due diversi sensi il suo esatto significato va individuato con i consueti criteri ermeneutici, che fanno riferimento al testo della legge, in cui si inserisce, e alla sua ratio. In relazione all'interpretazione delle leggi di delega, la giurisprudenza costituzionale e' costante nel ribadire fra l'altro come contenuto della delega non possa essere individuato senza tenere conto del sistema normativo nel quale la stessa si inserisce, poiche' soltanto l'identificazione della sua ratio consente di verificare, in sede di controllo, se la norma delegata sia con essa coerente» (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2013, n. 272 del 2012). Quanto poi all'asserita irrazionalita' e disparita' di trattamento rispetto ai membri del Parlamento e del Governo (art. 3 Cost.), va richiamato il consolidato insegnamento della Corte costituzionale che non ha ritenuto «configurabile, sotto il profilo della disparita' di trattamento, un raffronto tra la posizione dei titolari di cariche elettive nelle regioni e negli enti locali e quella dei membri del Parlamento e del Governo, essendo evidente il diverso livello istituzionale e funzionale degli organi costituzionali ora citati», con la conseguenza che «certamente non puo' ritenersi irragionevole la scelta operata dal legislatore di dettare le norme impugnate con esclusivo riferimento ai titolari di cariche elettive non nazionali» (Corte cost. sentenza 276/2016). La censura e' dunque manifestamente infondata. 2.b.4.) Deduce, poi, il ricorrente, al punto A.3), l'illegittimita' costituzionale del decreto legislativo n. 235/2012 per violazione degli articoli 3, 51, 54, comma 2, e 97, comma 2 della Costituzione per l'«evidente impatto negativo che una misura come la sospensione di diritto, appositamente prevista per tutelare il buon andamento della pubblica amministrazione, puo' determinare in danno al medesimo principio costituzionale». Al riguardo, va evidenziato - come correttamente sostenuto dall'Avvocatura dello Stato e dal pubblico ministero - che la Corte costituzionale ha costantemente escluso profili di irragionevolezza della disciplina de qua, chiarendo che «Ben puo' quindi il legislatore, nel disciplinare i requisiti per l'accesso e il mantenimento delle cariche che comportano l'esercizio di quelle funzioni, ricercare un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione, dall'altro; tanto piu' che il dovere, fissato a garanzia di questo secondo interesse, di svolgere con onore le funzioni pubbliche incombe precisamente sui destinatari della protezione offerta dall'art. 51 Cost., vale a dire - per quanto qui rileva - sugli eletti. Pronunciandosi su misure dello stesso tipo di quella prevista dalla norma censurata, questa Corte ha ritenuto che il bilanciamento dei valori coinvolti effettuato dal legislatore non si appalesa irragionevole, essendo esso fondato essenzialmente sul sospetto di inquinamento o, quanto meno, di perdita dell'immagine degli apparati pubblici, che puo' derivare dalla permanenza in carica del consigliere eletto, che abbia riportato una condanna, anche se non definitiva, per i delitti indicati e sulla constatazione del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per la permanenza dell'eletto nell'organo elettivo» (sentenza 236/2015; si vedano anche le sentenze 118/2013, 257/2010, 352/200, 825/2002, 206/1999, 141/1996). Anche questo rilievo di legittimita' costituzionale e' pertanto manifestamente infondato. 2.b.5.) Infine, appare priva di rilevanza la questione sollevata all'interno del punto A.6) del ricorso, in cui si sostiene che l'applicazione retroattiva del disposto di cui al suddetto decreto legislativo si porrebbe in contrasto con gli articoli 2, 4, secondo comma, 25, comma 2, 51, primo comma e 97, secondo comma della Costituzione. Invero, la questione sarebbe rilevante solo se avesse avuto per oggetto un nuovo reato ostativo, che prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 235 del 2012 non facesse scattare la sospensione dalla carica, a seguito di condanna non definitiva. Nel caso di specie, al contrario, il delitto di peculato era gia' incluso, nella previgente disciplina (v. art. 59 del decreto legislativo n. 267 del 2000) tra i reati, la cui condanna non definitiva dava luogo alla sospensione. Esiste, quindi, un rapporto di continuita' tra la norma previgente allora in vigore e quella l'attuale. Tanto basta, in conformita' a consolidata giurisprudenza costituzionale per ritenere la irrilevanza della questione sollevata, 3. Sulla non manifesta infondatezza. A diversa conclusione si perviene, invece, riguardo ai profili (disseminati, tra altri, all'interno dei vari motivi di ricorso sub A.3 e sub A.4) con i quali si prospetta una illegittimita' costituzionale dei commi 1 e 4 dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235 del 31 dicembre 2012 - in riferimento agli articoli della Costituzione 3, comma 1, 48, commi 1 e 2, 51, comma 1, e 97, comma 1, tenuto in considerazione il principio di incolpevolezza sancito all'art. 27, comma 1 - nella parte in cui stabiliscono la sospensione cautelare nella misura fissa di diciotto mesi, invece che in misura graduale «sino a diciotto mesi». Riguardo alla valutazione della non manifesta infondatezza, si condivide preliminarmente l'orientamento secondo cui il giudice a quo non ha il compito di sindacare le norme di sospetta incostituzionalita' - funzione di stretta competenza del Giudice delle Leggi - bensi' di verificare che i rilievi sollevati non appaiano del tutto privi di fondamento. 3.a.) Va premesso che, come autorevolmente insegnato dal Giudice delle Leggi, la sospensione dalle funzioni prevista dall'art. 11 del decreto legislativo n. 35/2012 non costituisce una sanzione anticipata della sentenza penale di condanna e pertanto non implica un anticipato giudizio di riprovazione (indegnita' morale); costituisce, invece, una misura cautelare a protezione dell'ente presso cui il soggetto condannato espleta la funzione elettiva, dal pregiudizio all'immagine e al corretto svolgimento dell'attivita' politico-amministrativa, conseguente all'accertamento dell'illecito risultante nella sentenza penale (non definitiva). Dalla ratio sottesa alla misura cautelare della sospensione; consegue l'esigenza di una verifica dell'entita' del pregiudizio, che all'ente deriva in concreto da quei comportamenti, e di una valutazione complessiva dei contrapposti interessi, anche questi di valenza costituzionale, indicati agli articoli 51, comma 1, e anche 48, commi 1 e 2 Costituzione. La mancata ponderazione e valutazione congiunta di questi interessi in gioco, ai fini della determinazione dell'entita' della sospensione entro un limite massimo stabilito dal legislatore - necessariamente da effettuarsi in concreto da parte dell'autorita' deputata a decretare la sospensione - derivante dall'attuale formulazione delle disposizioni contenute ai commi 1 e 4 dell'art. 11 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, conduce, ad avviso di questo remittente, ad un sospetto di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita', con riferimento all'art. 3, comma 1, della Costituzione. Invero, la sospensione cautelare fissa di diciotto mesi - e non in misura diversificata, che tenga conto della tipologia del fatto e dell'entita' del comportamento illecito accertato da un lato e dell'entita' del pregiudizio che puo' derivare all'ente - in relazione a comportamenti ontologicamente diversi oppure posti in essere con minore o maggiore gravita', e, quindi, notevolmente disomogenei, ed incidenti percio' in misura diversa sul pregiudizio dell'ente, di fatto piu' o meno grave, determina una illogica e ingiustificata disparita' di trattamento, in possibile contrasto con il principio di pari dignita' sociale e di eguaglianza, tutelato dall'art. 3, comma 1, della Costituzione. 3.b.) Al riguardo, la Corte costituzionale ha preso in esame l'art. 11, commi 1 e 4, del decreto legislativo n. 235/2012, anche con riferimento all'art. 3 della Costituzione, ma in relazione a profili diversi da quelli ora sollevati. Precisamente, nella sentenza 276/2016 ha escluso la fondatezza della censura, formulata in relazione all'art. 3, della illegittimita' della sospensione per non essere stata prevista la soglia minima superiore a due anni di pena con la condanna non definitiva, per come e' stabilito ai fini della incandidabilita' per i parlamentari nazionali ed europei; e con la successiva sentenza 36 del 2019 ha dichiarato l'infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, sollevata anche con riferimento all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che la sospensione si applichi solo nel caso di sentenze di condanna non definitive emesse dopo l'elezione. Trattasi, quindi, di profili diversi da quelli in questa sede presi in esame. In ordine alla necessita' di una valutazione di congruita' della misura, in relazione al comportamento in concreto del suo autore - necessaria per evitare la violazione dell'art. 3 della Costituzione - spunti interessanti possono trarsi anche dalle recenti sentenze della Corte costituzionale 5 dicembre 2018, n. 222, in materia fallimentare, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacita' per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziche': «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacita' ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni») e la sentenza 20 febbraio 2020, n. 24, che ha dichiarato «l'illegittimita' costituzionale dell'art. 120, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall'art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 e come modificato dall'art. 19, comma 2, lettere a) e b), della legge 29 luglio 2010, n. 120 e dall'art. 8, comma l, lettera b), del decreto legislativo 18 aprile 2011, n. 59, nella parte in cui dispone che il prefetto "provvede" - invece che "puo' provvedere" - alla revoca della patente di guida nei confronti di coloro che sono sottoposti a misura di sicurezza personale». Peraltro va evidenziato che per le misure cautelati interdittive previste dal codice di procedura penale (tra cui la sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio - art. 289 c.p.c. - che non si applica agli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare), in applicazione dei principi di adeguatezza della singola misura in relazione al caso concreto e di proporzionalita', l'art. 308 codice di procedura civile non prevede una durata fissa, bensi' una durata massima (dodici mesi) e, in base al diritto vivente (v. C., Sez. V, 18 novembre 2015-14 gennaio 2016, n. 1325) la determinazione del termine di durata deve essere sorretta da un'idonea motivazione che dia conto delle ragioni considerate anche in relazione alle ritenute esigenze cautelari da salvaguardare. 3.c.) La non manifesta infondatezza si rileva nel combinato disposto dell'art. 3, comma 1, gia' illustrato, con le altre disposizioni contenute negli articoli della Costituzione 97, comma 1, 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2. In ordine alla protezione dell'interesse pubblico (art. 97, comma 1, della Costituzione), che costituisce la ratio dell'istituto della sospensione cautelare, prevista dall'art. 11 citato, va rilevato che trattasi della tutela dell'ente - presso cui espleta la funzione elettiva il soggetto - dal pregiudizio in concreto all'immagine ed allo svolgimento ordinato dell'attivita' politico-amministrativa, conseguente ai comportamenti illeciti del soggetto, per come accertati in sede penale. Riguardo al pregiudizio subito dall'ente, e' di comune esperienza che, in relazione alla disomogenea platea dei reati, dai quali deriva ex lege la sospensione, e della minore o maggiore gravita' del comportamento posto in essere dall'autore, questo puo' essere di maggiore o minore entita'. Quindi, l'interesse pubblico dell'ente non si presenta sempre della stessa consistenza. 3.d.) Ora - in relazione all'ampliamento dei reati, antologicamente diversi e di diverso allarme anche sociale e di diversa incidenza quindi sul pregiudizio dell'ente, la cui condanna non definitiva da' luogo alla sospensione dall'esercizio della pubblica funzione elettiva - non appare manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' delle disposizioni sopra indicate nella parte in cui, prevedendo la sospensione in misura fissa, non consentono di valutare, ai fini della determinazione della misura della sospensione, l'entita' del pregiudizio dell' ente. Proprio questo ampliamento delle fattispecie criminose in qualche modo fa apparire superata la sentenza n. 206 del 1999, con la quale la Corte costituzionale rigetto' le eccezioni di incostituzionalita' relative all'art. 15 della legge 55 del 1990, ritenendo giustificato il bilanciamento in astratto operato dal legislatore, con la considerazione della «caratteristica che tutti li accomuna (quei reati danti luogo alla sospensione): di essere cioe' delitti di criminalita' organizzata (associazione per delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti, traffico di armi, favoreggiamento in relazione agli stessi reati). Si tratta cioe' di delitti per i quali la sussistenza di un'accusa a carico di pubblici impiegati fa sorgere immediatamente il sospetto di un inquinamento dell'apparato pubblico da parte di quel organizzazioni criminali, la cui pericolosita' sociale va al di la' della gravita' dei singoli delitti che vengono commessi o contestati.». Infatti, l'art. 11, comma 1 del decreto legislativo n. 235/2012, ai fini della sospensione richiama il precedente art. 10, comma l, lettere a), b) e c), che elenca i seguenti reati di diversa consistenza e pericolosita': «a) coloro che hanno riportato condanna definitiva per il delitto previsto dall'art. 416-bis del codice penale o per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui all'art. 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, a per un delitto di cui all'art. 73 del citato testo unico concernente la produzione o il traffico di dette sostanze, o per un delitto concernente la fabbricazione, l'importazione, l'esportazione, la vendita o cessione, nonche', nei casi in cui sia inflitta la pena della reclusione non inferiore ad un anno, il porto, il trasporto e la detenzione di armi, munizioni o materie esplodenti, o per il delitto di favoreggiamento personale o reale commesso in relazione a taluno dei predetti reati; b) coloro che hanno riportato condanne definitive per i delitti, consumati o tentati, previsti dall'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, diversi da quelli indicati alla lettera a); c) coloro che hanno riportato condanna definitiva per i delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 323, 325, 326, 331, secondo comma, 334, 346-bis del codice penale;». Trattasi di reati edittalmente gravi; ma poiche' ai fini della sospensione rileva il pregiudizio che subirebbe l'ente dal mantenimento della funzione elettiva da parte del soggetto condannato, non appare peregrino ritenere che occorra una verifica in concreto dell'entita' del pregiudizio, in relazione anche ai contrapposti interessi che vengono di seguito illustrati, e tenendo sempre presente il principio di incolpevolezza in favore del condannato con sentenza non definitiva. 3.e.) Se la sospensione cautelare della funzione elettiva trova giustificazione nell'interesse pubblico dell'ente, come protezione dal pregiudizio concreto derivante dal comportamento attribuito al soggetto, s'impone una verifica della costituzionalita' della norma anche nella parte in cui non sono presi in considerazione la tipologia del reato e la minore o maggiore gravita' del comportamento, tenuto conto degli interessi che trovano tutela negli articoli 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2, della Costituzione. L'art. 51 Costituzione porta tutela costituzionale in favore del soggetto eletto non solo con riguardo all'accesso, bensi' anche con riguardo al mantenimento dell'esercizio della pubblica funzione elettiva, la quale, essendo di per se' limitata nel tempo, potrebbe risultare gravemente compromessa e non altrimenti recuperabile dal soggetto condannato, nel caso di successivo proscioglimento. All'interesse costituzionalmente garantito dell'eletto non e' peregrino aggiungere anche - ad avviso di questo remittente - l'interesse della comunita' che l'ha eletto a che la funzione continui ad essere esercitata dal cittadino che essa ha democraticamente prescelto, interesse costituzionale che puo' costituire un corollario del diritto all'elettorato attivo, sancito all'art. 48, commi 1 e 2 della Costituzione. Invero il diritto costituzionale di partecipare attivamente alla scelta del candidato, al quale attribuire una pubblica funzione elettiva, che si estrinseca anche nel diritto di contestare il risultato elettorale o di intervenire ad adiuvandum oppure ad opponendum in un giudizio elettorale instaurato da altri, sarebbe monco ove non si riconoscesse come corollario un interesse a che il candidato prescelto eserciti la funzione elettiva. 3.f.) In conclusione, il mancato bilanciamento di questi interessi, costituzionalmente previsti dagli articoli 97, comma 1, dall'art. 51, comma 1, dall'art. 48, commi 1 e 2 - non essendo prevista una determinazione della misura temporale della sospensione cautelare da parte dell'autorita' emanante, che sia conseguente ad una valutazione in concreto del pregiudizio dell'ente, inciso dai fatti accertati in sede penale, da un lato, e, dall'altro, ad una valutazione della tipologia del reato accertato in sede penale e della minore o maggiore gravita' del comportamento del soggetto - rende non manifestamente infondato il rilievo di illegittimita' costituzionale, per illogica disparita' di trattamento in violazione dei principi di pari dignita' sociale e di eguaglianza, di cui all'art. 3, comma 1, della Costituzione, in relazione, appunto, agli articoli 97, comma 1, all'art. 51, comma 1, all'art. 48, commi 1 e 2, in relazione al principio di incolpevolezza di cui all'art. 27, comma 1, in favore del ricorrente, in quanto condannato con sentenza non definitiva. 4. Sulla rilevanza e ammissibilita' della questione. La questione e' certamente rilevante. Oggetto del presente giudizio e' la legittimita' del provvedimento prefettizio con il quale e' stata disposta, ai sensi dell'art. 11, comma 1, del decreto legislativo n. 235 del 31 dicembre 2012, la sospensione del ricorrente dalla funzione elettiva di sindaco del Comune di ..., per la durata de iure di diciotto mesi - salvo i casi di cessazione anticipata per proscioglimento o per subentro della decadenza. Ai fini della decisione rileva, quindi, se le disposizioni applicate con il provvedimento del prefetto siano o non inficiate da illegittimita' costituzionale. La questione sollevata appare anche ammissibile, considerato che, ove accolta, non occorre alcun intervento ulteriore del legislatore per il funzionamento dell'istituto. Invero, con riguardo al primo comma e' sufficiente la sostituzione, nel primo comma dell'art. 11 delle parole «Sono sospesi di diritto» con le parole «sono sospesi sino a diciotto mesi», mentre riguardo al comma 4, e' sufficiente la soppressione del primo periodo: «La sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi.». Cio' comportera' implicitamente il potere del prefetto di determinare la durata della sospensione sino al massimo di diciotto mesi, senza che occorra alcun intervento del legislatore neppure in ordine ai criteri per la determinazione della durata, derivanti direttamente dal bilanciamento dall'interesse pubblico dell'ente, per come gia' individuato da codesta ecc.ma Corte costituzionale, e dalla tipologia del reato e della consistenza del comportamento del suo autore, avuto riguardo agli interessi tutelati dagli articoli 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2, ed ai principi che discendono dall'art. 3, comma 1, della Costituzione. Periculum in mora Nella specie, ritenuta la sussistenza del fumus boni iuris in base alle considerazioni che precedono, e' da ritenere che sussista, altresi', anche il periculum in mora, in relazione alla compromissione del fondamentale diritto di elettorato passivo che non potrebbe trovare alcuna congrua forma di ristoro in sede risarcitoria, considerata peraltro la durata temporalmente delimitata del mandato elettivo. Invero, l'applicazione del provvedimento prefettizio di sospensione, laddove fossero fondati i dubbi riguardo alla legittimita' costituzionale delle norme di cui sopra e, quindi, circa la sua legittimita', comporterebbe un'indebita e eccessiva restrizione all'esercizio dell'elettorato passivo e del libero svolgimento del mandato elettorale, con conseguente danno per il dott. P non riparatile ne' risarcibile. La gravita' e l'irreparabilita' del danno impongono l'adozione della misura cautelare richiesta; di conseguenza deve essere disposta la sospensione cautelare provvisoria degli effetti del decreto prefettizio impugnato fino alla udienza che verra' fissata successivamente alla definizione della questione di legittimita' costituzionale sollevata da questo Tribunale.